A vederlo da fuori il dibattito politico italiano pare tutto concentrato sulla scelta del leader, Berlusconi sì, Berlusconi no. I problemi sembrano avvolgersi tutti intorno a tale questione, provando quanto forte sia l’impatto di Berlusconi, l’uomo che in ogni caso ha marcato quasi una ventennio di storia italiana. Con lui o senza di lui, il problema sembra essere solo quello di trovare una guida sicura per il paese o di mettere la Guida (questo significa “leader”) in tranquillità, senza le troppe distrazioni che paiono perseguitare Berlusconi di recente.
Eppure guardando l’Italia da un paese come la Cina, con una guida certo molto più sicura di quella italiana, il problema sembra essere altro. Infatti, non tutte le guide sono uguali, bisogna scegliere la guida adatta alla strada che si vuole fare: in aereo ci vuole un pilota, in mare un nocchiero, e per strada un autista. Tutte queste figure hanno certo un profilo comune, devono sapere prendere decisioni difficili ma non sono tutte uguali o interscambiabili.

Allora la domanda vera è: qual l’obiettivo del paese di lungo termine? per poi scegliere la strategia per arrivarci e quindi l’uomo, gli uomini, che possano cominciare a portarla avanti. A questo l’Italia dovrebbe dedicare le sue energie e scegliere, sicura che poi la scelta non è determinata dai capricci dal momento, ma dalle direzioni della storia.
Ogni scelta infatti deve sempre contemplare tanti elementi, ma certo non può trascurare la storia; la quale, per una volta chiaramente, indica in una sola direzione per i prossimi 20 anni: l’area dell’Asia-Pacifico. L’America è e resterà importante, l’Europa con o senza Ue è improrogabile, il Medio Oriente è troppo vicino e turbolento da trascurare, ma sono l’Asia e la Cina che trainano e traineranno sempre più la storia del pianeta.

L’Italia e i suoi leader possono abbracciare la storia o sfuggirla, ma certo non hanno il peso o la forza di cambiarla. Da oltre 30 anni la Cina cresce del 10% l’anno, è diventata la seconda economia del mondo, è il singolo maggiore produttore di crescita in un mondo ancora in crisi. Paradossalmente  non importa se nei prossimi 20 anni la Cina mantiene il passo, rallenta, o scoppia. Il centro della storia sarà comunque determinato dal suo processo. Se scoppia, fa esplodere l’economia mondiale, se mantiene il passo in 10-15 anni supera il Pil americano, se rallenta rimette in gioco tutta la politica economica mondiale.

L’India, il Sudest asiatico, le corrono dietro in gran fretta e anche il Giappone e la Sud Corea, pur sviluppati, sono spinti avanti in questa nuova tendenza storica che sta spostando l’asse di gravitazione economica americana dalla costa atlantica al quella del Pacifico. Oggi la regione ospita il 60% della popolazione mondiale e ha i tassi di sviluppo più veloci del mondo. La Germania, il paese la cui economia fa meglio in Europa ed è per prima uscita dalla crisi, non a caso ha il maggiore interscambio con la Cina. Infatti il suo import-export con la Cina è pari a quello del resto dell’Europa messo insieme.
Ma allora il futuro dell’Italia, se il paese vuole mantenere un alto tasso di benessere e non sprofondare lentamente nella miseria, non può che essere rivolto verso l’Asia. E se non lo sarà, decisione certo legittima, è bene che qualcuno si assuma l’onere di spiegarle perché si vuole compiere una scelta che volta le spalle alla storia e allo sviluppo.

È per compiere questa scelta che si devono scegliere i leader, qualcuno che cominci a guidare l’Italia nei prossimi 20 anni, verso l’Asia oppure controcorrente ma per scelta deliberata e consapevole. In ogni caso, i leader devono avere familiarità, capire l’Asia; non possono essere leader a casaccio, altrimenti il paese sarà sconfitto.
Oltre alle guide occorre anche un metodo. Come ha fatto la Cina a crescere in questi 30 anni? Possibile che la Cina compia uno sviluppo travolgente, unico per velocità e ampiezza nella storia, e l’Italia non abbia niente da imparare da questo? Dopo la guerra l’Italia ha cercato di ripartire imparando dall’America, oggi negli Stati Uniti il cinese è la lingua più studiata e la materia più trattata in libri e romanzi. Possibile che l’Italia abbia così poco bisogno da imparare dall’esperienza cinese?

Forse la complicatissima e misteriosa Cina si può raccontare con una formuletta: è riuscita a coniugare in maniera efficiente la programmazione con il libero mercato. Cioè ha fatto piani di lungo periodo e ha cercato di guidare le imprese, ma ha liberalizzato in maniera crescente il mercato interno dove si sono moltiplicate le imprese private, e anche le imprese statali si sono aperte al capitale privato e straniero. È qualcosa che ricalca quello che già indicava Paolo Savona sul Foglio del 6 aprile.

A far funzionare la Cina è stato poi un altro ingrediente, quello della meritocrazia, dove chi fa porta a casa successi, è promosso e gli vengono date responsabilità maggiori, altrimenti è bocciato. In Italia di rado è chiaro cosa sia un successo e cosa un insuccesso, cosa è bene o cosa è male, cosa è peccato veniale e cosa mortale. Gli opposti si confondono e si mischiano, finché tutti sono uguali a tutto. Certo è difficile cambiare. Secoli di tradizione cattolica le hanno insegnato l’ottima arte privata del rapido perdono, e quella pessima delle frettolose assoluzioni pubbliche.
Il passato è difficile da fare passare, e come oggi ancora esistono le riunioni con i gagliardetti e il fascio, la lacrima per i Savoia, i gruppi pro Francesco Giuseppe e persino il club per la restaurazione dei Borboni a Napoli, già si può immaginare il futuro fra cinque, dieci o trent’anni quando una parte piccola o meno dell’Italia rimpiangerà l’era Berlusconi. Del resto non tutto è passato per il meglio, si sa. Gli allora tanto vilipesi democristiani, oggi risulta abbiano donato all’Italia un periodo d’oro della sua storia, insieme di grande libertà e crescita economica.

Oggi non è chiaro se l’era Berlusconi sia finita e, se nel caso, quando arriverà davvero la fine della fine. È possibile anzi, come suggeriva Stefano Folli qualche giorno fa su queste colonne, che Berlusconi stia affilando coltelli e sciabole per eliminare il potente del suo governo che più gli dà ombra, Giulio Tremonti, ministro dell’Economia che ha retto finora l’urto della crisi.
Senza Tremonti e la possibilità che egli guidi un governo tecnico potrebbe sfumare l’alternativa vera al premier Berlusconi. Che Angelino Alfano sia premier al posto del Premier pare poco più di una battuta. Tutti in Italia e fuori sanno (o dicono di sapere, che poi è la stessa cosa ai fini pratici) che Alfano è stato messo al posto di ministro della Giustizia come giannizzero degli interessi più stretti di Berlusconi. Eppure ora che l’era Berlusconi approccia il ventennio, che la cultura delle sue televisioni e della sua vita privata hanno informato un’epoca, compresi i suoi avversari che spesso hanno tentato di inseguirlo sul suo stesso terreno, forse è giusto pensare anche al dopo.

Gli americani permettono ai presidenti non più di due mandati, per otto anni in tutto. I cinesi, criticati ovunque come esempio di autoritarismo, accordano ai loro leader sempre due mandati, per dieci anni in tutto. Persino Putin, che certo non spicca come il più democratico dei capi, si è piegato alla forma di un mandato da premier cedendo la presidenza ad un suo stretto alleato ma di valore.
Che Berlusconi sia ricordato in futuro con i club “bunga-bunga” o quelli “Partito delle libertà” dipende anche dalle sue scelte di oggi e di come può pianificare il futuro suo e dell’Italia. L’uomo probabilmente non si fida. Teme che se cedesse la presidenza del Consiglio si troverebbe poi senza niente: senza potere, forse senza azienda, sotto processo e persino con la famiglia sotto assedio. Qui certo non ci sono garanzie che bastano, ma il suo bene e quello (possiamo dirlo?) dell’Italia chiederebbero un suo passo indietro.

È possibile che di Tremonti, come è stato di Fini, non si fidi. Forse neanche Letta gli dà garanzie. Da soli poi né l’uno né l’altro forse riuscirebbero a fare quello che è necessario per vincere le elezioni, cioè trascinare i votanti. In Cina sì: entrambi tecnocrati, da uomini di apparato conquisterebbero i grandi elettori e la gente del pubblico. In Italia invece, il ventennio berlusconiano ha convinto troppi che il successo arrida solo a furbi perditempo o fighette senza testa. Così, Tremonti o Letta, con l’aria di secchioni ammalati di lavoro, un po’ degli Amato di destra, paiono anche loro fuori posto. Oppure l’essere fuori posto garantirebbe ancora Berlusconi?

In ogni caso un cambio di marcia è necessario. La tragedia libica, che assilla l’Italia in questi giorni, è solo l’ultimo e forse anche il minore dei pericoli per il paese. Nei giorni scorsi il presidente della World Bank Robert Zoellik avvertiva dei pericoli di una nuova crisi finanziaria; all’inizio della settimana il debito americano è stato giudicato più grave del previsto; il dramma della centrale nucleare in Giappone, la terza economia del mondo, è ancora fuori controllo; gli aumenti del petrolio e dei cereali incombono come fantasmi, mentre la crisi dell’euro e dei debiti delle economie più deboli della Ue sembra sospesa per un filo.

Tutto questo senza pensare ai tanti problemi interni italiani. Come fa a esserci tempo per il bunga-bunga e il processo breve? Eppure è sempre stato così, è vero: senza la sopravvivenza fisica e politica del leader non ci può essere una linea politica del paese. La sicurezza del leader è la condizione minima per avere certezza del futuro. Senza, è come se il petto del leader fosse il solo scudo tra il suo cuore e le pallottole. Sarebbe spacciato. Ma il futuro di Berlusconi non è la sua immortalità fisica e di carriera, a cui, ci dispiace, non crediamo, non foss’altro perché è contro natura. La sua immortalità politica e storica è invece possibile, ed è nelle sue mani. Forse solo questa può essere la via d’uscita per l’Italia e per lui stesso tra un giorno, un mese o un anno, per conservare l’azienda, il nome e il futuro suo e del paese. Per questo lui per primo deve pensare alla sua successione: deve capire che questo non significa la sua morte, ma è la garanzia per la continuazione della (sua) politica.