In teoria bisognerebbe aspettare il risultato dei referendum perché sembra proprio che questo voto si giochi sul filo di lana. Se dovesse vincere l’astensionismo il governo di Silvio Berlusconi potrebbe guadagnare tempo e rigirare la macchina dell’opinione pubblica negando o ridimensionando il risultato delle amministrative. Se invece vincono i referendum il tutto potrebbe essere presentato come l’ultimo chiodo nella bara del berlusconismo.

In realtà i risultati appaiono già chiari dai sondaggi, com’era successo al primo turno delle amministrative. Infatti, l’astensione sarà un voto anti-sistema, contro i comitati referendari, ma anche contro Berlusconi che comunque è il vertice del sistema attuale. Il voto per i referendum non sarebbe comunque a favore dell’opposizione “istituzionale” del Pd, che su temi complessi come il nucleare o l’acqua rimane cauto e tiepido.
L’astensione, comunque massiccia, che si arrivi o meno al quorum, sottolinea invece la voglia di enorme cambiamento che, se non assecondato, sbocca storicamente in rivoluzione.

Subito dopo il risultato delle amministrative, Vittorio Feltri commentando a caldo il risultato di De Magistris, irrideva il nuovo sindaco dicendo che non avrebbe potuto risolvere il problema dell’immondizia. Cosa avrebbe potuto fare De Magistris quando la spazzatura sarebbe arrivata al secondo o al terzo piano dei palazzi? Arrendersi, faceva capire Feltri.

In realtà in questa analisi sembra sfuggire la profondità della voglia di cambiamento in corso e anche il carattere dei nuovi protagonisti. A guardarlo anche solo dalla televisione appare infatti chiaro che se De Magistris in tre o sei mesi non dovesse risolvere il problema della spazzatura darebbe la colpa al governo di Roma, giusto o meno che sia, mobilitando il suo popolo. Potrebbe addirittura marciare su Roma da Napoli alla testa di una folla di dimostranti furibondi, quasi imitando un gesto plateale e drammatico di 90 anni fa.

Così De Magistris sarebbe padrone dell’agenda politica nazionale con il sindaco di Milano Pisapia, suo possibile sodale politico, a dargli manforte su un’ala moderata e politicamente più ragionevole. Questo lo scenario che l’Italia dovrebbe prepararsi ad affrontare forse già a cavallo dell’estate quando con il caldo la spazzatura fermenta ed è pronta ad “esplodere”. Tale scenario non verrà rallentato, ma rischia di essere accelerato dall’esito dei referendum.

Se in questi tre mesi Napoli e il governo centrale di concerto risolveranno l’emergenza rifiuti per prevenire la probabile marcia su Roma, allora de Magistris potrà dire di avere messo comunque nell’angolo Berlusconi costringendolo ad agire.

Difficile che in questo momento “misure tampone” riescano a invertire la tendenza “rivoluzionaria” in corso. Servirebbe mettere in cantiere riforme di lungo termine che ridiano fiato al paese su cui incombe la minaccia della crisi finanziaria. Ma per questo potrebbe non esserci tempo.

Monta quindi la voglia di cambiamento, chiesti dall’“avanguardia” della popolazione, ma i tempi sono stretti. Tutto potrebbe avvitarsi molto rapidamente, in un contesto in cui l’incertezza politica e sociale moltiplica l’incertezza finanziaria e i timori dei mercati internazionali sui rischi di default del debito italiano.

L’unica via di fuga è un rapido piano, concordato con i maggiori creditori dell’Italia, i tedeschi, per una vendita almeno parziale del patrimonio dello Stato, in modo da rimettere in sicurezza il debito. Questa però sarebbe solo l’ancora di salvezza, oltre a ciò bisognerebbe lavorare per ricucire il Paese. E qui il discorso si complica: i partiti tradizionali hanno fatto il loro tempo, e anche le proposte di riforme elettorali paiono minime rispetto ai bisogni sul terreno.

Gli esiti rivoluzionari che portarono alla fine dell’Impero cinese all’inizio del 20° secolo furono tali da sconvolgere tutto l’ordinamento politico e culturale della Cina. La risposta politica iniziò a partire da questo sommovimento tettonico perché riforme minime allora non potevano essere risolutive.

Eppure tutto poteva essere evitato se il movimento di riforma dei 100 giorni, del 1898, guidato dall’imperatore Guangxu con Kang Youwei e Liang Qichao, non fosse stato fermato da una colpo di stato di palazzo. Il movimento imitava la riforma Meiji che in Giappone circa 40 anni prima, aveva trasformato l’arcipelago lanciandolo verso la modernità.
Come allora in Cina, oggi in Italia la rivoluzione dura non è inevitabile, anzi. Ma la concreta possibilità di un’esasperazione della lotta politica e sociale non andrebbe sottovalutata.

Oggi come allora per la Cina, c’è per l’Italia una crisi profonda e una crisi congiunturale. L’Italia e l’Europa paiono sconvolte dalla perdita della propria centralità storica durata fino a qualche anno fa, quando con la metà degli anni Novanta crebbe la globalizzazione e cominciarono a emergere paesi come Cina o India. Questo è l’orizzonte di crisi culturale e sistemica che la Germania sta affrontando e che l’Italia fa finta di non vedere, o che non riesce neppure a concepire per la miopia politica di molti dei suoi decisori. Quest’ultima è la vera crisi congiunturale dell’Italia.

Quindi una qualche forza sociale e culturale dovrebbe lavorare a convocare gli stati generali per una rifondazione del paese che, come nel dopoguerra, raccolga davvero le intelligenze esiliate. Ciò allo scopo non di vincere un’elezione ma, prima, di capire davvero di cosa ha bisogno l’Italia, e su questa base scegliere una strategia e quindi, solo alla fine, decidere un gruppo dirigente che lo porti avanti.

Tali stati generali potrebbero lavorare con o contro le forze politiche che attualmente si battono in mezza Italia per evitare una seconda marcia su Roma e riconoscere la voglia di cambiamento moderato che c’è nella maggioranza della popolazione, seccata e mal disposta davanti agli atteggiamenti demagogici e violenti a destra o a sinistra.

Riuscirà a farlo? In Cina fino al crollo dell’impero millenario nel 1911, un cambiamento radicale sembrava impossibile. Invece accadde molto ma molto di più.