All’indomani del ridimensionamento annunciato dal governo italiano delle missioni militari all’estero, nel paese si sono viste reazioni contrastanti. Dal “via tutti” all’accusa di sostanziale tradimento nei confronti della patria, mossa in particolare a Bossi e Di Pietro e a chiunque, rompendo la solidarietà nazionale, si oppone alle missioni di pace in Afghanistan e Libia. Per fare chiarezza bisogna fare un passo indietro e cercare di capire oggi le ragioni degli interventi italiani all’estero.

Le ragioni che qui si possono vedere sono due, una più e l’altra meno nobile. Quella nobile, risponde alla spinta del presidente della Repubblica Napolitano ed è in sostanza quella della fedeltà atlantica dell’Italia. In poche parole l’America ha chiesto l’intervento italiano, e l’Italia perché riconosce una sostanziale identità di vedute e di interessi internazionali con gli Usa, segue Washington in Afghanistan o altrove. Secondo questa visione l’aderenza all’America è una dottrina che una volta decisa non può essere ridiscussa a ogni piè sospinto.

Quella meno nobile è di una parte del governo che riconosce la debolezza internazionale di Berlusconi su questioni di forma (il bunga-bunga) e di sostanza (il rapporto troppo stretto con la Russia e la Libia di Gheddafi) e ha cercato di “comprare” benevolenza americana con soldati italiani all’estero.

Ora le ragioni nobili o meno nobili lasciano spesso un vuoto di dibattito autentico come è accaduto per l’Europa. Lucio Caracciolo, per esempio, da anni scrive cose da “euroscettico” non perché sia contrario all’Unione europea, ma perché cerca di mantenere un’idea di quale sia o debba essere l’interesse italiano in questa unione. La Ue non è né deve essere un atto di fede, la politica estera dovrebbe essere definita da e certamente definisce la politica interna, quindi meriterebbe uno spazio di riflessione grande almeno quanto le varie vicende di cortile.

In questo senso la politica delle missioni all’estero dovrebbero essere oggetto di riflessione profonda: cosa portano o devono portare all’Italia. Tali questioni sono importanti al di là della decisione di mandare o meno soldati in Afghanistan. Viceversa accuse di tradimento non argomentate rivelano solo debolezza intellettuale o pigrizia mentale, forse l’elemento più dannoso in generale in questa vicenda.

La domanda allora nascosta dietro questi interventi italiani, domanda evidentemente tabù è: qual è la politica estera italiana? Che vuole fare l’Italia nel mondo, e quindi cosa vuole fare all’interno del suo paese?

Tali domande semplicemente non si pongono, e le risposte, giuste o sbagliate, non si dibattono: un grande velo buio copre la questione centrale della vita dell’Italia. È da questo velo che deriva poi l’altro velo del perché delle missioni italiane. Quindi se i dubbi sollevati da Di Pietro e Bossi sulle missioni servissero a squarciare un po’ di veli e aprire un dibattito sulla politica estera italiana ciò sarebbe una cosa molto salutare per l’Italia. Ciò non significa che in Afghanistan o in Libia non ci si debba andare, ma non si può farlo ciecamente o per pagare una “mazzetta politica”.

Quindi, alla fine, essere o meno in Afghanistan o in Libia deve dipendere da una strategia del governo italiano. Nel merito, quali dovrebbero essere le ragioni dell’Italia in questi interventi? Per l’Afghanistan e l’Iraq si tratta in sostanza di una scelta di campo. L’Italia fu salvata dal nazifascismo dagli americani quasi settant’anni fa, gli Usa l’hanno protetta dalla minaccia dell’invasione sovietica, hanno sostenuto la sua crescita e il suo sviluppo, c’è una sostanziale identità di interessi politici e di valori con l’America. È quindi in sostanza giusto che l’Italia non solo paghi i suoi “debiti morali” agli Usa ma le sia accanto, perché in questa situazione italiana un colpo agli Usa è un colpo serio anche all’Italia.

Proprio per questo però la lealtà non deve essere cecità, anzi. Gli Usa non devono commettere errori politici, che sono dannosi ad essa ed all’Italia, per questo è dovere dell’Italia essere vigile e segnalare agli Usa ove ci possono essere errori. Questa diventa lealtà vera, dà un contributo vero agli Usa e all’Italia e fa crescere il peso politico dell’Italia verso gli Usa e nel mondo. La cecità non serve né all’Italia né agli americani. Ciò non è lo stupido antiamericanismo che si diffonde periodicamente nelle piazze contro questa o quella guerra, è esattamente il contrario: si può essere contro la guerra in Iraq non perché si è contro l’America ma proprio perché si è a favore dell’America e non si vuole che essa commetta gravi sbagli che poi si ripercuotono su tutti. Di tutto questo non si ragiona in Italia però. Si mandano o si ritirano truppe per calcoli di costi di pallottole o di sanzioni.

Quindi dopo le questioni generali forse bisogna capire in particolare i due casi più caldi, Afghanistan e Libia, e poi la Cina, che è il convitato di pietra di queste vicende. Sulla guerra in Afghanistan la decisione generale è stata presa, bisogna ritirarsi, e gli italiani seguiranno gli Usa. Quello che rimane sono problemi tecnici, militari: come deve avvenire il ritiro, in che condizioni e che garanzie si vogliono ottenere nell’Afghanistan lasciato dagli occidentali.

Qui il governo italiano dovrebbe in sostanza agire sulla base di quello che pensano e suggeriscono i militari italiani in accordo con quelli americani. A meno che l’Italia pensi che tutte le avventure americane in Asia siano semplicemente da abbandonare, ma questa richiederebbe una scelta politica precisa, che non credo alcuno in Italia voglia fare. Inoltre bisogna capire anche come massimizzare gli interessi italiani in Afghanistan e nella regione. Questi argomenti dovrebbero essere discussi. Ma, forse per la distanza, non ho visto grandi dibattiti approfonditi su cosa succede in Afghanistan né sugli interessi italiani in Asia centrale.

Sulla Libia la questione è più delicata, proprio perché il governo aveva fatto la scelta eretica di schierarsi con Gheddafi, l’uomo che di fatto mezzo occidente vuole morto. Quell’intervento, sbagliato o giusto, oggi non si può interrompere fino al rovesciamento del potere di Gheddafi, perché un ritiro della Nato da questa iniziativa potrebbe essere l’inizio della fine per l’Europa e l’occidente. Gheddafi andrebbe rovesciato il prima possibile, proprio per evitare di allungare i tempi all’infinito.

Ogni giorno in più di scontro è una dichiarazione di debolezza ulteriore dell’Europa e della Nato al mondo, colossi che hanno difficoltà con un pulcino come la Libia di Gheddafi. Ciò non significa volere la strage di Gheddafi e dei suoi, anzi. L’Italia potrebbe fare tesoro di una sciagurata politica filo-gheddafiana per offrire garanzie per la vita del rais, che certo sarebbe meno dannoso da vivo pensionato che da morto martire.

Se l’Italia trovasse un compromesso, una soluzione politica in quest’impasse militare, riuscirebbe ad avere un ruolo più centrale con la Nato e l’Europa. Ma per questo deve portare qualcosa sul tavolo, risultati, idee, analisi originali. Se l’Italia si limita a fare lo “yes man” di turno, è solo carne da cannone, serve poco, e quindi vale poco nel momento della divisione dei pani e dei pesci della politica economica e internazionale.

In altre parole, l’Italia forse è giusto che rimanga in Afghanistan e Libia, ma assolutamente non può o deve farlo ciecamente, ma criticamente. La cosa farebbe bene all’Italia e ai suoi alleati. Lo farà? Forse no, perché la politica estera (come quella interna) si è ridotta a un circo di tifoseria calcistica, inutile a tutti.

Ma se per caso così non fosse, bisognerebbe guardare a grandi temi e spazi. Per esempio a qual è la sfida maggiore del mondo e dell’America nel prossimo futuro. Non è il Medio Oriente, dove si immischia militarmente poco, né l’Afghanistan, da cui ritira le truppe, ma la Cina. Se qui l’Italia contribuisse di più, il suo peso si moltiplicherebbe. Qui, in particolare, il presidente Napolitano aveva dato un contributo personale molto importante, con un discorso di altissimo livello alla Scuola centrale del partito l’anno scorso. Però anche quello sembra finito in un calderone dimenticato.