Nell’aprile del 1644 Li Zicheng, capo di una delle tante rivoluzioni contadine che hanno costellato la storia cinese, rovesciò la dinastia Ming. L’ultimo imperatore Chongzhen si impiccò a un albero, ancora religiosamente custodito nel parco di Beihai a Pechino, e Li fondò la nuova dinastia Shun iniziando con il sacco della capitale.
La crudeltà dell’evento spinse il generale lealista Wu Sangui a volgersi contro il nuovo sovrano cinese e ad allearsi con l’aggressivo stato mancese che premeva ai confini. I Mancesi entrarono nell’impero di mezzo e contro i patti fondarono una nuova dinastia, Qing, che avrebbe dominato il paese per quasi 300 anni. I Qing imposero un giogo straniero, ma anche promossero e diffusero la cultura tradizionale e oggi sono considerati “cinesi” a tutti gli effetti.
È questo il destino che sta per toccare all’Italia nei prossimi mesi? Naturalmente oggi le condizioni sono molto diverse e ogni paragone con una storia tanto lontana è oggettivamente forzato. Ma rimane un problema concreto: cosa può fare il nuovo asse franco-tedesco davanti agli enormi problemi dell’Italia, certo non destinati a essere risolti nello spazio di un mattino o di pochi mesi o anni?
Certo Berlino non può volere il crollo dell’Italia o la sua espulsione dall’euro. Ciò porterebbe a una svalutazione della nuova lira, che darebbe fiato all’industria manifatturiera italiana togliendo spazio e mercato a quella tedesca. Ciò a sua volta restringerebbe lo spazio per le esportazioni tedesche anche in Italia. Insomma, Berlino ragionevolmente pensa: non posso far crollare l’Italia, perché poi mi creo un forte concorrente e mi riduco il mercato.
Però Berlino non può certo firmare un assegno in bianco a Roma, di questo o di altri governi. Né basta solo mettere i paletti sulla politica fiscale: rischia di essere una misura troppo rigida che non ha forme di controllo modulate. Ma allora Berlino cosa fa? Fa crollare i titoli italiani? Si ritornerebbe allo scenario precedente: impossibile. Inoltre i paletti fiscali non bastano ad assicurare ciò che più serve all’Italia, una politica di sviluppo da inventarsi.
In altri tempi si sarebbe pensato – forse – ad invadere politicamente e militarmente, ma le invasioni oggi non si fanno. In realtà i franco-tedeschi oggi potrebbero cautelarsi sulle vicende romane prendendosi pezzi di sistema italiano. Potrebbero partecipare attivamente al processo di privatizzazioni, e soprattutto potrebbero (o forse dovrebbero?) esigere un mezzo di regia di controllo italiano. In Unicredit, per esempio, i libici post Gheddafi venderanno. Potrebbero entrare i franco-tedeschi e in più assicurarsi il controllo della Banca. Da qui possono accedere a Mediobanca, a Generali… e al Corriere della Sera, che come si sa siede su quel 5-10 percento di voto che può essere decisivo nella politica italiana.
Gli italiani che non hanno saputo regolarsi da soli o si allineano, o sono regolati da fuori (con le misure imposte da Parigi-Berlino via Bruxelles) e da Unicredit. È triste? Ma è l’unica cosa pratica, e probabilmente questo i tedeschi stanno già facendo visto che proprio in Unicredit siedono già in consiglio di amministrazione. La storia recente sta dimostrando che nessun politico italiano è affidabile, vecchio o nuovo che sia: il sistema è bacato. Un parlamento di mille persone è semplicemente irragionevole oggi, ma per cambiare questo sistema ci vogliono anni, non misurine dell’ultimo minuto per tagliare questa o quella provincia, questo o quel comune montano.
Né sarà vera invasione. In Italia c’è stato sempre un partito di Ghibellini che ha tifato contro i Guelfi scialacquoni e superficiali, e già si celebrano i vari Federichi imperatori tedeschi come apici di civiltà. Molti da Milano a Palermo si domandano sommessamente da anni perché mai gli italiani decisero di cacciare gli efficienti, illuminati e moderni imperatori austroungarici in cambio di ruspanti re piedimontani, per secoli estranei alle evoluzioni politiche della penisola (in questo il Papa attuale è stato forse inconsapevole prodromo del ritorno dei tedeschi in Italia).
Un allineamento sostanziale dell’Italia alla nuova Framania (Francia-Germania) sarebbe la vera spinta all’unità politica europea e a un più realistico federalismo non italiano (che dalla Cina appare incomprensibile come la differenza tra i cantoni svizzeri, con tutto il rispetto per gli svizzeri) ma europeo.