In Italia si sta parlando in maniera molto accesa di riforma elettorale e mentre poche cose sono certe su che tipo di voto i cittadini saranno chiamati a esercitare, è chiaro però che non si andrà alle urne prima di avere cambiato il modello attuale.
Il gioco adesso sembra una specie di partita di bridge in cui tutti i contendenti si sgolano a chiedere la riforma che più conviene in base alle proprie previsioni di risultato. È come se gli alti volessero il salto, i veloci i cento metri, i resistenti la maratona.
Il risultato comunque sarà determinato dal compromesso, sperando che sia una specie di 400 metri a ostacoli (c’è il salto, lo sprint ma anche la resistenza) con un’eleganza e dignità propria e non una specie di gara a chi fa schizzare più fango col salto nel fosso, un pasticcio che alla fine scontenta tutti, come sono state le leggi elettorali in Italia fino ad ora.
I fallimenti delle leggi passate, per cui si rifà una nuova legge ora, hanno certo motivi contingenti ma forse ci sono anche ragioni più di lungo termine per le difficoltà del momento. Il sistema del voto negli stati democratici moderni è fondato su un patto politico profondo tra cittadini e governo. I cittadini contribuiscono alle spese delle stato e in cambio esigono il diritto di controllare come questi soldi sono usati. Cioè i cittadini pagano le tasse ma in cambio hanno il diritto di voto per eleggere il governo. Questo principio si esemplifica nel celebre: “no taxation without representation”.
Il patto politico è diverso da quello antico, feudale, dove la gente era tassata come sudditi e il benessere loro e dello stato era lasciato al buon cuore del principe. Questi decideva come spendere il denaro dello stato senza che i sudditi avessero possibilità di controllo o rappresentanza. Il principio moderno è necessario a tenere insieme il sistema sociale ed economico attuale; per questo esso viene applicato anche in Cina, pur senza un suffragio universale. I ricchi, infatti, grandi contribuenti fiscali sono chiamati a partecipare al parlamento cinese, il Congresso nazionale del popolo (lo NPC) e alcuni sono stati addirittura chiamati a entrare nel comitato centrale del partito.
La classe media e i contadini, che nei fatti non partecipano alle decisioni politiche, però non sono nemmeno chiamati a partecipare al contributo fiscale. I contadini sono stati esentati dal pagare le tasse e con la nuova borghesia si tollera un ampio livello di evasione fiscale.
Tale principio fondante per ogni stato moderno è comunque disatteso in maniera crescente in Italia. Qui circa il 20% della forza lavoro è costituito da stranieri che pagano le tasse come gli italiani (giusto, visto che ricevono servizi come scuola o sanità) ma non votano. Cioè questi sono sudditi, senza diritti democratici, e gli italiani esercitano una specie di colonialismo interno: gli stranieri in Italia pagano ma non sono rappresentati, né possono controllare come saranno spesi i loro denari. Il loro benessere è lasciato al buon cuore del sovrano.
Questo può essere giusto o ingiusto. Non è però una questione morale ma pratica. La non partecipazione al voto degli stranieri che pagano le tasse rende estraneo un vasto gruppo di forza vitale italiana dal processo politico italiano. Se ciò non viene prima o poi sanato, comporterà forme di straniamento di ampie fasce sociali dalle sorti dell’Italia e odio sociale e razziale profondo.
C’è poi un ulteriore elemento. La non partecipazione dei contribuenti stranieri al voto elimina un elemento di forte interesse e comprensione dell’Italia verso il mondo, che oggi tanto condiziona l’Italia stessa. Cioè mediorientali, esteuropei, africani, latinoamericani, asiatici e certo anche cinesi, che non partecipano al processo politico europeo allontanano l’Italia dal mondo, in un momento in cui il mondo è estremamente condizionante per la politica e l’economia italiana.
L’Italia, in altre parole, senza la partecipazione politica di questi lavoratori stranieri capisce meno il mondo, il quale invece, oggi come mai prima d’ora detta tante regole interne. In più, l’Italia si cresce un cancro sociale e politico interno.
Questo fenomeno è poi moltiplicato da un altro fattore. Votano e hanno un peso crescente i pensionati, che non contribuiscono più alla produzione attiva e che incarnano nel loro fisico l’interesse a non cambiare, perché in un cambiamento (che andrebbe a colpire i loro privilegi acquisiti con questo stato sociale) avrebbero comunque da perdere.
In sintesi, in Italia non vota chi può aprire l’Italia al mondo e ai cambiamenti necessari per la sopravvivenza del paese, e vota chi invece è chiuso al mondo e non vuole cambiare.
Naturalmente questa situazione è vista con freddezza, e con altrettanta freddezza bisogna capire anche che non si può sanarla a colpi di sciabola, per esempio dando il voto agli stranieri e togliendolo ai pensionati. Ma non si può neanche tenere una situazione in cui uno straniero ottiene la cittadinanza, e quindi il voto, solo dopo 15 anni (!) di residenza e pratiche defatiganti.
In America chi ha un regolare permesso di lavoro può chiedere rapidamente la cittadinanza americana e in circa tre anni vota. In Italia si dovrebbe pensare in questi termini. Il risultato politico potrebbe essere travolgente. Se anche solo il 5% dei votanti fossero italiani di origine etnica diversa ciò comporterebbe l’inizio di una necessaria proiezione dell’Italia verso il mondo.
Senza questo l’Italia rimarrà nei fatti meno rappresentativa della stessa Cina; sempre più chiusa, isolata, con la finale bizzarria che sono rappresentati al parlamento gli italiani all’estero invece che gli stranieri in Italia!
Certo la questione è di lungo termine e non interessa le complicate alchimie di tarare la previsione di voto con il sistema più conveniente per questo o quel partito. Ma un interesse di lungo termine, non di parte ma di stato, forse potrebbe essere utile in un momento in cui l’Italia è in difficoltà non avendo fatto per decenni le riforme economiche necessarie.
Oggi, nella conciliazione elettorale tattica, servirebbe allora una comprensione profonda di strategia, per evitare che fra cinque, dieci anni l’Italia si trovi schiacciata dall’estero su due fronti, quello esterno e quello interno.
Facile pensare in futuro a rivolte di immigrati senza cittadinanza e pressioni politiche straniere. Del resto disattenzioni, incuria, sbagli sui problemi di lungo termine hanno portato l’economia italiana a essere quella che è adesso.