Mussolini aveva la testa pelata sul volto glabro da cui spuntava la mascella arcigna e volitiva a pompare le mani sui fianchi e il petto gonfiato in fuori. Hitler aveva il baffetto spesso, nero e corto, non più largo delle narici, e il ciuffo da mandare indietro con un colpo irato di nuca. Per Stalin c’era invece il baffone sotto lo sguardo sornione, famelico e immobile da topo mannaro. Grillo ha una selva continua di barba e capelli irsuti su cui luccicano occhi vaganti. Si fissano solo quando il cespuglio di peli ondeggia sopra la testa che annuisce violenta per dire “è così”.
Sono tutte maschere, utili agli attori come Grillo, ma anche ai dittatori come gli altri tre, perché fermano il ragionamento e muovono il pensiero secondo la pancia, i riflessi emozionali, secondo il fatto che dici: “è così” senza avere bene capito cosa ha detto o cosa vuole dire quel signore. Ma meglio non dissentire perché poi non si ride o peggio si soffre. Così, già nella maschera di Grillo c’è la ricerca dell’azione che può essere quella del capocomico o del capo popolo.
Eppure tutte le lezioni della storia ci dovrebbero avere insegnato che non si può esorcizzare l’eventualità di un capo popolo con l’irrisione dei suoi comportamenti da capocomico. La congiuntura dei due elementi dovrebbe portare a pensare e poi agire, per scongiurare davvero che il capocomico diventi altro, e Grillo, in questo caso, si trasformi in Duce.
L’emersione di Grillo, più o meno forte, secondo i punti di vista, nelle elezioni a Genova e l’allungarsi della sua ombra sul dibattito italiano accompagnato poi dagli echi degli spari nella stessa città contro un dirigente dell’Ansaldo, sono il testamento della fine della seconda repubblica italiana.
La prima fu seppellita dalla Lega Nord. Oggi che anche la Lega è affossata sotto badilate di fango di corruzione, ecco emergere un’altra forza che si presenta più drammatica ed eversiva di quanto non fu la formazione di Bossi all’inizio. Anche quella, agli inizi, certo non scherzava distribuendo adesivi allegramente razzisti con un divieto di transito sulla caricatura di un meridionale con coppola e lupara e la scritta quasi lirica “da Roma in giù l’Italia non c’è più”. Ma Grillo anche per il contesto pare peggio.
Ieri i leghisti agitavano lo spettro della spaccatura dell’Italia in un ambiente internazionale in realtà molto solido. L’Urss si era dissolta, l’America era padrona dell’orbe terracqueo, l’Unione europea portava avanti con prudenza ma determinazione le sue politiche regolatrici. In questo ambito una secessione in Italia era impossibile e poi, se ciò anche fosse accaduto, sarebbe stata una spaccatura in cui le due future Italie sarebbero state entrambe entro la Ue ed entro la Nato. Ogni tentazione di frattura violenta sarebbe stata estirpata sul nascere, visto che né l’Europa né l’America potevano permettersi derive jugoslave nel loro spazio di controllo diretto.
Oggi è invece quel contesto certo manca, e anzi vediamo che l’Ue vacilla intorno alle mille incertezze dell’euro, l’America, con i problemi interni suoi, pensa che la questione più grande sia quella dell’Asia e l’emergenza del potere cinese. Così da un canto manca un’attenzione specifica sull’Italia, dall’altro anche se vi fossero la Ue e gli Usa, esse avrebbero meno energie e forze per salvare l’Italia da se stessa.
In questo retroterra la parabola di Grillo, e dei suoi emuli, diventa più spaventosa. L’Italia non deve prendere sotto gamba, o scartare con un’alzata di spalle, quello che Grillo dice. La cura che Grillo offre non funziona, ma lui è il sintomo di una malattia vera italiana: la mancanza profonda di politica e strategia, di idee e sensibilità nuove adeguate ai tempi e al mondo.
Tutti parlano di uomini, e ciò per tanti motivi, perché in sostanza tanti vedono opportunità di avanzamento per se stessi e poi perché per tutti le facce concrete, le maschere come abbiamo visto, sono più eloquenti delle idee astratte. È comprensibile, ma è invece da queste ultime che bisogna cominciare, perché non tutti sono buoni per tutto. L’Italia deve decidere cosa vuole fare. Su queste pagine, da anni, prima dell’esplosione del grillismo, abbiamo ravvisato il pericolo di rivoluzioni e la necessità di pensare a strategie, a cominciare dalla posizione italiana nel mondo. Eppure, ciò ancora non è cominciato.
Monti è un passo in avanti nella direzione giusta. Egli sta di fatto cominciando a disegnare una nuova politica estera, partendo dalle esigenze dell’economia e da Europa e America, giustamente, ma il suo governo, ci pare, ha due punti deboli essenziali. È di fatto senza un ministero degli Esteri, visto che non riesce a gestire nemmeno le varie crisi degli ostaggi, che dovrebbero essere quasi ordinaria amministrazione, e qui ci sarebbe un discorso più largo da affrontare. In un momento di enorme trasformazione globale questa assenza è drammatica. Altro problema è che Monti è a capo di un governo che è una specie di astrazione politica. Non ha un organico sostegno dal Parlamento che per la Costituzione avrebbe dovuto esprimerlo in primo luogo, ma è stato imposto da uno sforzo congiunto del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e di Paesi stranieri preoccupati per le sorti dell’Italia più degli italiani stessi. Questo condiziona tempi e spazi dell’azione del governo. Le riforme da affrontare richiedono periodi lunghi e incisioni profonde nel tessuto interno e internazionale, cose su cui Monti non può strutturalmente intervenire. Monti non può programmare e annunciare politiche di lungo termine né strategie di largo respiro verso l’Asia, per esempio, nuovo orizzonte del futuro del mondo.
Questa assenza di prospettiva è, oltre al bagaglio del passato, ciò che da spazio a Grillo. In realtà, in queste condizioni di estrema confusione politica internazionale e di marasma in Italia in cui ognuno sembra correre per la propria vita, è difficile pensare che questi due punti possano essere risolti in maniera compiuta in breve tempo. Occorre però in breve tempo pensare a limitare l’erosione e i danni possibili del grillismo. Né è ragionevole pensare che i partiti riescano a rinnovarsi e ripensare il Paese, visto che non l’hanno fatto finora, intrappolati nei piccoli calcoli timorosi delle loro stesse piccole burocrazie interne.
Si tratta di mettere in moto uno sforzo ideale per il futuro dell’Italia e dell’Europa. In momenti storici di crisi, la Chiesa, lo scrivo da non credente dubbioso su alcune posizioni della Chiesa stessa, ha giocato un ruolo fondamentale. Non si tratta oggi, di mettersi a capo di una specie di rifondazione democristiana, ma di muoversi per animare un dibattito sulle idee e non sulle maschere degli uomini, e poi pensare a passi concreti, politici da prendere al di là di questa o quella formazione, questo o quell’uomo. Suor Giuliana Galli, responsabile del Cottolengo, è al San Paolo non come “banchiera” ma come persona che può aiutare a pensare il futuro di quella banca. Se servivano idee e sensibilità nuove per una banca, tanto più ciò vale per l’Italia di oggi.