Nel mese di luglio e agosto l’Italia si è quasi fermata a seguire attonita e sconvolta le vicende del crollo dei conti europei dietro la facciata pressante e oscura della vicenda dell’Ilva di Taranto, un’acciaieria chiusa d’imperio dalla magistratura per eccesso di inquinamento. Tale chiusura ha posto la città alle strette tra scegliere se distruggere cinquemila e rotti posti di lavoro o invece salvare l’Ilva e continuare con l’affumicante inquinamento. La scelta pressata dalla Confindustria e dai sindacati, sostenitori di Riva, patron dell’Ilva, e dei metalmeccanici, ha concentrato il governo e l’opinione pubblicato ma ha anche nascosto il vero problema che si dipanava alle spalle dell’Ilva.
L’Unione europea era infatti nel frattempo entrata in un vicolo cieco. Ciò è così non perché tedeschi, italiani e francesi o i fallimentari spagnoli e greci sono in disaccordo su come migliorare i loro conti nazionali. L’Ue sta finendo, perché è senza speranza. Non c’è speranza, programma, e alcun vero piano per tenere insieme l’Unione o per dimostrare perché Paesi con tradizioni, leggi, e sensi di identità diversi – Paesi che sono stati in guerra l’uno contro l’altro per la maggior parte degli ultimi tre secoli – dovrebbero ora unirsi e abbracciare il futuro insieme, piuttosto che respingerlo.
Il dibattito culturale e politico non si è mosso sulla vera domanda sul futuro del continente e della sua gente. È bloccato nella piccola contabilità, taglia questa spesa, aggiungi questa tassa, costantemente sostenuta dalla mancanza di una spinta comune per la fiducia nell’Unione.
Certo, i paesi del Sud non hanno fatto la loro parte quando hanno firmato il patto per l’euro 20 anni fa. Per due decenni, alcuni, come l’Italia, non hanno compiuto alcuno sforzo reale per migliorare i loro conti nazionali, e altri, come la Grecia, sono arrivati al punto di falsificare i conti di estorcere più sostegno a Berlino, via Bruxelles. Altri ancora, come la Spagna, l’Irlanda, il Portogallo, sono stati tanto innocenti da credere che la bolla immobiliare non fosse reale quanto i mattoni usati per costruire le case.
Questi sono certamente guasti veri e problemi gravi, la cui soluzione è stata ritardata per quasi una generazione. Tuttavia, c’è anche un rovescio della medaglia, che non giustifica i colpevoli Piigs, ma mette le attuali difficoltà europee in prospettiva. Negli ultimi due decenni, la Germania ha registrato un surplus commerciale con gli altri Stati dell’Ue tra gli 80 e 120 miliardi di euro all’anno. Era più della metà del suo surplus commerciale totale, di circa 200 miliardi di euro all’anno, maggiore di quello della “infame Cina”, bollata come un manipolatore di valuta da una parte della stampa americana. In un periodo di venti anni, con un calcolo semplicistico, questo potrebbe fare una bella sommetta: circa due trilioni di surplus (più del debito pubblico totale italiano) con altri stati membri dell’Ue e oltre quattro trilioni in totale con tutto il mondo.
Questo denaro è certamente ben meritato, ed è frutto dell’ingegno e del duro lavoro tedesco. Giustamente ha finanziato la riunificazione tedesca e la sua audace espansione industriale in mercati emergenti globali. Ma ciò è stato possibile anche a causa della scarse prestazioni degli altri Paesi europei. Se l’Italia avesse pagato i suoi debiti di Stato, se la Spagna o la Grecia avessero investito in industrie reali e non in ville sul lungomare o in mal meritate pensioni, il surplus commerciale tedesco sarebbe stato tagliato su entrambi i lati. La Germania non avrebbe esportato così tanto negli altri Stati membri dell’Ue e le esportazioni di altri Paesi dell’Ue, come l’Italia, con una struttura industriale simile, avrebbero potuto ridurre il surplus commerciale tedesco in tutto il mondo.
Questo non significa che la Germania si sia comportata male o abbia fatto qualcosa di sbagliato: non si può criticare la persona laboriosa per l’ignavia del vicino della porta accanto. E la pigrizia del vicino sicuramente rende il laborioso prudente nell’entrare in affari con il pigro, come è il caso oggi dei tedeschi che si domandano l’utilità di una moneta comune con Paesi meridionali dissoluti. Ciò comunque pone una questione importante perché l’accidia meridionale se non altro ha creato un mercato per i tedeschi laboriosi e ha ristretto la concorrenza. Questo perché la Germania e il Sud cialtrone europeo erano legati alla stessa moneta, moneta adatta alle esigenze tedesche (o a cui i tedeschi si sono adattati) e che era a un tempo troppo stretta e troppo larga per gli altri. In un certo senso, i tedeschi potrebbero essere accusati di avere manipolato (o di non avere manipolato abbastanza) la moneta comune per soddisfare solo le proprie esigenze nazionali, non quelle di altri Paesi.
Potrebbe essere delicato e forse ingiusto ragionare secondo queste linee contro i tedeschi, ma dopo tutto, da decenni gli italiani del sud hanno usato argomentazioni simili contro i settentrionali accusandoli di avere causato la loro mancanza di sviluppo. Già oggi si può facilmente vedere un rivolo di sentimento anti-tedesco riemergere in Europa, e questo potrebbe diventare un fiume se la Germania davvero lasciasse gli altri europei al loro destino. Le conseguenze di un fiume siffatto sono imponderabili, ma certamente non farebbero troppo bene alla Germania.
Inoltre, ci sarebbe una domanda sul futuro economico a medio e lungo termine della Germania. Senza un mercato europeo quasi esclusivo e con molti concorrenti scatenati, che ne sarebbe delle esportazioni e dell’economia tedesca? A differenza delle cicale del sud, alle formiche tedesche piace pensare a lungo termine, a condizione che frenesie, vincoli o pressioni a breve termine non offuschino la loro visione. Inoltre, i tedeschi potrebbero anche avere bisogno di liberarsi del loro destino di distruggere l’Europa, in un modo o nell’altro, ogni pochi decenni. Questo da solo dovrebbe essere sufficiente a spostare dibattito e i battibecchi europei attuali dalle regole contabili a un livello diverso.
Il vero problema, infatti, è: noi europei, del Nord o del Sud, dobbiamo stringere la cinghia cambiando il nostro stile di vita e il sistema di governo (al Sud) o accettare di pagare il conto (al Nord), ma per cosa? Gli esseri umani accettano di fare sacrifici. La maggior parte è disposta a impegnarsi per venti anni a scuola con la speranza sfuggente di ottenere un buon lavoro alla fine degli studi, ma c’è bisogno di speranza, di un obiettivo, o un progetto. Qual è la speranza per gli europei? Senza speranza, senza un progetto, non c’è l’Europa. Nel 1989, i tedeschi occidentali e gli altri europei occidentali accettarono l’unificazione non per calcolo economico, ma per un nobile obiettivo: l’unione della Germania, qualcosa che era stato tolto ai tedeschi per mezzo secolo. Se fossero valsi solo i calcoli politici ed economici allora, oggi la Germania non sarebbe unita e la tedesca orientale Angela Merkel non sarebbe cancelliere.
Tuttavia, la speranza tedesca e l’obiettivo unitario esistevano da secoli. L’Europa è invece un concetto vago anche come espressione geografica. Alcuni anni fa, la Turchia stava per essere ammessa nella Ue mentre la Russia ne era stata scartata. I leader europei allora erano disposti a dimenticare la storia antica della lotta tra turchi musulmani contro gli europei cristiani (cosa che avrebbe dato la preferenza ai russi cristiani rispetto ai turchi) e di concentrarsi solo sulla Turchia del dopo Ataturk, a-religiosa, mentre la Russia restava filiale pargolo dell’Urss comunista. Era giusto, o era sbagliato? L’Europa, in effetti, non è passata attraverso un complesso dibattito ideale e culturale per scegliere concettualmente tra le due opzioni, cosa che avrebbe toccato molti nervi scoperti in ??tutti i paesi europei.
Per esempio, l’Europa avrebbe dovuto riconoscere la religione come parte della sua tradizione? O avrebbe dovuto metterla da parte, cercando di costruire su altri punti? Il dibattito coinvolge questioni come identità culturale, valori, ideali, e il problema molto delicato di dove tracciare una linea nella sabbia tra l’Europa e la non-Europa. Questo dibattito non è stato iniziato neanche nel frattempo, ed è così complicato che, se affrontato, potrebbe facilmente rompere la fragile ragnatela di legami che tengono insieme le lontanissime Finlandia al Portogallo.
In effetti, il successo dell’Unione europea è stato anche quello di evitare delicate questioni ideali e basarsi su pratici interessi comuni. Qui, forse, esiste una ragione per cui l’Europa dovrebbe stare insieme. Il vero motivo per una possibile unificazione europea è nell’allargamento del mondo. L’Europa ha rotto i confini regionali del mondo quando ha iniziato avventurarsi sui mari e colonizzare il resto del globo. Il processo che ha messo insieme il mondo intero è stato ulteriormente accresciuto dalla diffusione di ideologie universalistiche come quella del comunismo o del libero mercato, e più tardi è stata sostenuta dalla caduta del comunismo e dal trionfo della globalizzazione a guida americana, a cavallo dei veloci byte di internet e dei telefoni cellulari. In questo mondo globale, singoli Paesi europei contano meno di una più grande Europa unita. Solo una più grande Europa può affrontare ora e in futuro giganti emergenti come Cina, India, Indonesia, Brasile, Sud Africa, eccetera. Questa Europa più grande sarebbe conveniente per tutti.
Quindi l’Europa deve cercare di collegarsi il più possibile con l’Asia, patria della maggior parte dei giganti emergenti. La Germania lo sa e ha investito una buona parte delle sue eccedenze commerciali in Asia, e in Cina in particolare, negli ultimi decenni. Può continuare a farlo da sola, ma sarebbe importante stabilire vie di comunicazione dirette tra Asia ed Europa. Questi percorsi passano per la Russia o il Mediterraneo dalla Cina, o se le merci provengono da India e Sud-Est asiatico, solo attraverso il Mediterraneo. I porti in Turchia e il passaggio da Suez poi diventano cruciali, e così lo sono i porti meridionali europei, come ad esempio quello del Pireo in Grecia o di Taranto in Italia. Per inciso quest’ultimo è il porto più vicino a Suez in Europa. I trasporti terrestri da e per l’Asia a Taranto possono essere più veloci ed economici rispetto ai porti del Nord Europa. Alcuni esperti italiani ritengono che il trasporto terra da Taranto potrebbe costare almeno il 15% in meno rispetto a quello da qualsiasi altro porto in Europa.
Questi numeri potrebbero essere sufficienti per ri-orientare l’Europa, basandola sulla necessità di costruire comunicazioni più rapide ed economiche con l’Asia. Ciò potrebbe essere un incentivo economico sufficiente a convincere la Germania a stringere i denti e accollarsi spese maggiori, tenendo la guida politica per costringere gli incompetenti italiani sulla strada delle riforme economiche e dell’unione politica in Europa. Una conseguenza negativa per la Germania potrebbe essere evitata, e con ciò si schiverebbe la scissione degli europei del sud, che sarebbero più competitivi con una moneta più conveniente, e ciò significherebbe meno calo delle esportazioni tedesche. Inoltre un elemento positivo sarebbe aggiunto: ci sarebbero collegamenti più veloci e più diretti con le economie emergenti.
L’Europa potrebbe essere riavviata da Taranto, e vi è qualche indicazione che questo potrebbe effettivamente essere il caso, poiché Rotterdam (il principale attracco del Nord Europa) ha concluso un accordo di cooperazione con il porto mediterraneo. La politica italiana non è stata finora in grado di concentrarsi sul potenziale di Taranto, ma dopo tutto, quella politica ha fallito per 20 anni nell’opera di migliorare i conti pubblici e ha sempre rinviato decisioni forti anche dopo che la crisi economica del 2008 le è esplosa in faccia. In teoria, uno sforzo europeo potrebbe riavviare l’Europa da Taranto, posto con potenziali enormi, in cui una grande azienda di Taiwan (la Evergreen) e una di Hong Kong (Hutchison Whampoa) hanno già investito lì e sono speranzose. Ma la città è ora in bilico, sull’orlo di un precipizio a causa di un eccesso di inquinamento per un’acciaieria, simbolo del degrado di tutta Italia.
Il porto commerciale di Taranto sarebbe la nuova speranza, un nuovo piano, proprio per l’Unione europea. Un piano Taranto sarebbe più facile di un complesso programma culturale per l’Unione, e questo piano potrebbe e dovrebbe facilmente diventare un progetto per l’Europa. Succederà? Il piano c’è, tocca ai politici italiani ed europei e ai loro calcoli capire se vogliono imboccare una via d’uscita rispetto alla piccola contabilità aziendal-nazionale, quanto gli convenga e quanto riescano a comprendere e abbracciare il forte e tenue filo europeo fra Taranto e la Cina. Così, per l’Europa, osiamo dirlo?, è o Taranto o morte.