A metà degli anni 90 si aprì in Cina un dibattito sul ruolo delle grandi imprese, che peraltro allora erano tutte di Stato.

Una parte sosteneva che, come era avvenuto fino ad allora, le imprese avrebbero dovuto occuparsi di produrre ma anche di fornire un lavoro alla gente, di avere cioè un ruolo economico ma anche sociale. Una seconda parte sosteneva invece che bisognava cambiare e che quindi le imprese dovevano solo pensare a produrre in maniera efficiente e che la questione sociale doveva essere svolta da altri.



I primi in altre parole dicevano che i milioni di addetti in esubero non avrebbero dovuto essere licenziati, gli invece pensavano che sì, bisognava farlo. Vinsero i secondi con il congresso del partito del 1997. Quindi circa 20 milioni di operai dovettero cambiare lavoro e l’economia cinese fece un balzo strutturale che la portò a essere quella che è oggi.



Vista da Pechino, oggi la questione della Fiat è proprio questa. La Fiat apre o chiude stabilimenti, assume o licenzia pensando all’occupazione o alla sua efficienza di azienda? Da questo punto di vista, l’incontro tra i vertici Fiat e il governo italiano di sabato scorso da un lato ha fornito elementi rassicuranti, ma da una prospettiva strategica – la più importante – non ha aggiunto molto a quanto già si sapeva o si poteva immaginare. Dato che l’economia di mercato è globale, se la Fiat pensa alla sua efficienza di azienda alcuni licenziamenti oggi significano la sua sopravvivenza domani.



Quindi i tagli di oggi creano la possibilità che in futuro ci saranno ancora operai Fiat in Italia. Se adesso si pensa solo alla questione dell’occupazione, in capo a cinque anni la Fiat per intero potrebbe fallire e allora non ci sarà più nemmeno un operaio di questa azienda, in Italia o in giro per il mondo.

Naturalmente, un’azienda di automobili non è una di magliette. Per la sua complessità il fabbricante di auto ha una relazione speciale con lo Stato. Fissare gli scarichi a un certo livello, la larghezza delle strade a un altro, fare una certa riforma del lavoro piuttosto che un’altra, significa la vita o la morte di un’azienda. Per questo, certo la Fiat non è un’azienda come le altre e ha bisogno di un certo dialogo con lo Stato.

Ma con l’Unione europea questo dialogo istituzionale si è di fatto sdoppiato, una parte è a Roma, ma un’altra sta a Bruxelles. Né valgono i principi di 30 anni fa, per cui l’Italia avrebbe dovuto avere un’azienda strategica nelle automobili. Tale questione è oggi europea: la Gran Bretagna non ha un’azienda automobilistica, mentre la Germania ne ha quattro. A livello europeo ha senso avere sei, sette aziende di automobili quando in America ce ne sono appena tre?

Dato che l’Europa non ha una capitale politica vera (almeno per ora) il problema non è strategico nazionale, ma è lasciato solo al mercato. Quindi il problema è semplice: la Fiat ce la fa o non ce la fa a sopravvivere oggi?

Sicuramente si potrà dire che in passato la Fiat ha ricevuto fiumi di denaro dallo Stato, montagne di aiuti amministrativi e politici. Ma anche se si sequestra tutta la fortuna della famiglia Agnelli e dei loro sodali e li si obbliga a dividere tutto tra gli operai non si risolve il problema attuale dell’azienda che è il seguente: può sopravvivere la Fiat in questo mercato o no?

Oggi di fatto la Fiat non ha chiuso in Italia o altrove perché il suo amministratore delegato Sergio Marchionne ha guidato una grande svolta in America. Qui grazie a una coincidenza fortunata Marchionne, in possesso di una tecnologia per il minore consumo di carburante (cosa necessaria secondo il neo presidente Usa Barack Obama) l’ha portata in dono alla Chrysler (azienda in crisi). In cambio ha avuto la gestione di Chrysler. Qui Marchionne ha fatto bene e la Chrysler oggi porta più profitti della Fiat.

Certo per un principio di carità, cristiano, buddista o comunista che sia, verso l’Italia, Marchionne potrebbe chiudere la Chrysler e con i soldi tenere in piedi la Fiat. Ma questo non farebbe felici gli americani, che tanto hanno aiutato Marchionne e i suoi in passato, e non cambierebbe la situazione in Italia. Finiti i soldi e la cuccagna, la Fiat tra cinque o dieci anni si ritrova come oggi.

Il problema vero è: come può l’azienda marciare oggi e in futuro? Se in Italia ci sono le condizioni, Marchionne continua a produrre nel Bel Paese, altrimenti chiude, e ciò avviene oggi oppure domani, senza cambiare nulla nei fatti. Naturalmente ciò non significa che Marchionne o gli Agnelli sono innocenti mentre gli operai colpevoli, o che la Fiat non abbia fatto una montagna di errori, compresi tanti di comunicazione. Ci sono stati errori di visione, di gestione e di strategia. Però oggi non è il passato e, a meno di non pensare a un tribunale politico, le cose ora stanno così.

La Fiat in effetti in questi giorni diventa un’altra volta il simbolo dell’Italia che deve obbedire alle nuove regole del mercato: o l’Italia lo fa, o diventa un prolungamento settentrionale della Libia, fra due mesi o due ann, poco importa. Il problema dovrebbe allora essere: perché un Marchionne non guida l’Italia invece che la Fiat? In questa risposta forse c’è tutto il problema attuale dell’Italia, non della Fiat.

Alla luce di questa analisi che senso aveva allora l’incontro a palazzo Chigi con il premier Monti? Siamo distantissimi, e quindi non sappiamo come siano andate le cose in realtà, al di là dei comunicati, ma così, superficialmente, ci sembra che potesse essere solo un teatrino; cosa necessaria, in tempi così delicati per la politica, ma comunque − ahivoi italiani − non sostanziale.