Il destino dell’Italia nel 2014 è confuso come forse raramente in altri momenti della sua storia recente. Anche le dimissioni repentine del viceministro Fassina non devono distogliere l’attenzione da una deriva più complessa e più ampia, quale quella di cui ci occupiamo da tempo. Le previsioni e le aspettative possono essere sbagliate, ma servono per proiettare e programmare comportamenti sociali ed economici necessari agli individui e ai decisori politici. In questo caso la mancanza di un quadro di riferimento chiaro, positivo o negativo che sia, getta un’ombra oscura sul paese.
Una cosa sola appare chiara: che il 24 maggio l’Italia voterà per le elezioni europee. Non si sa se ci sarà anche un voto politico, insieme, ma sicuramente anche in assenza di un voto per il parlamento il risultato di maggio sarà un referendum sullo stato d’animo del paese.
Se, come è probabile, l’attuale compagine governativa fosse sconfitta, l’Italia affronterebbe delegittimata il suo semestre di presidenza alla Commissione europea. Se pure il governo vincesse, la vittoria alle Europee non si trasformerebbe in vera vittoria di sostanza al parlamento. Quindi tanto varrebbe andare al voto comunque.
Questa considerazione banale, mentre è ancora fresco il ricordo dei forconi e continuano le polemiche parlamentari ed extraparlamentari tra Grillo, Berlusconi, Renzi, Alfano e Letta… in Italia non l’abbiamo sentita fare. Ma l’avremo senz’altro persa a causa della distanza.
Per andare alle elezioni manca sempre al conto il calcolo della legge elettorale da riformare, che certo complica di molto le cose, ma forse manca ancora di più l’idea del risultato. Berlusconi e Grillo sono apparsi alle ultime elezioni ottimi uomini di rimonta, persone che con poche settimane di distanza dalle urne hanno raccattato molto più voti del previsto. Renzi invece è partito lungo e la sinistra ha la tradizione, da Occhetto a Bersani, di partire vincitrice e arrivare sconfitta. Una lezione tattica, quindi, sarebbe per la sinistra quella di andare al voto il prima possibile per prevenire una rimonta di Berlusconi o Grillo.
Qui però la tattica politica si scontra e si incrocia con gli interessi di lungo termine del paese e degli equilibri internazionali. Questi coincidono e vorrebbero un governo stabile, capace di riforme incisive e di lungo termine. Ma non è certo che alcuno dei protagonisti oggi su piazza sia capace di tanto, né il tentativo di paracadutare dall’esterno un tecnico, Mario Monti, ha sortito gli effetti sperati. Anzi.
Per questo i grandi del mondo, per cui l’equilibrio dell’Italia è essenziale, dovrebbero forse cominciare a parlare con tutti e tre i possibili vincitori delle elezioni, Renzi, Grillo (cosa che pare stiano facendo)… ma anche il detestato Berlusconi, il quale magari potrebbe vincere per il rotto della cuffia un voto prossimo. Al di là delle persone è importante infatti cosa fare per rilanciare il paese, e questo non è affatto chiaro.
Tutto è tattica nel proprio partito e alle urne. Ma se questa tattica poi non è sostenuta da un programma di cosa fare, dopo due mesi chiunque vinca sarà sconfitto dalla pressione congiunta dei mercati internazionali e della piazza.
Quindi, in realtà, se pure si andasse al voto politico a maggio, senza un chiaro programma di rilancio del paese e un’applicazione rigorosa di tale programma, fra un anno gli equilibri italiani non saranno come oggi: saranno peggio di oggi e chiunque vinca a maggio sarà sconfitto dai mercati e dalla piazza a dicembre.
Non è chiaro da qui chi ha vantaggio e quale sarebbe il vantaggio per questo stato di fluttuazione politica continua che esiste ormai da anni. Così sembra che tale flusso non sia un disegno, ma frutto dell’incapacità dei protagonisti di pensare e attuare politiche di lungo termine. Ciò sarà frutto anche delle incapacità intellettuali dei singoli, ma certo vi contribuisce il complesso gioco di veti incrociati tra gilde e corporazioni che domina la politica italiana a ogni livello.
Tale stallo di veti incrociati è però ormai al capolinea. I forconi nelle piazze italiane, la crisi che minaccia la Francia incombono sull’Italia dove una crisi potrebbe fare precipitare l’euro e con esso gli equilibri economici mondiali. Chi infatti in Italia dice che la crisi è passata, oppure che “ne stiamo uscendo” o simili, non fa i conti con la realtà e mostra di non sapere di che cosa parla.
Nel 2009, dopo la crisi americana, il mondo si resse per la capacità della Cina di generare crescita laddove tutti gli altri non ce la facevano. Oggi l’Europa traballa e la ripresa americana è ancora incerta. Ma la Cina è ora in difficoltà. Secondo alcune stime il paese ha un totale aggregato di 71,6 trilioni di yuan di debiti, quasi 9mila miliardi di euro, quattro volte e mezzo il Pil italiano. In complesso è il 151% di debito rispetto al suo Pil.
Questo è diverso dal debito pubblico e considera anche i debiti delle aziende di Stato (che fanno una parte del leone nell’ammontare di tale debito), quindi non è paragonabile alla situazione italiana. A fronte di questo lo stato cinese ha assets per 166 trilioni di yuan, che coprono di gran lunga i debiti. Il progetto è vendere una parte di tali assets per ripianare i debiti, che diminuiranno anche grazie alla crescita annua di più del 7%. Questo è il motivo profondo che sta imponendo una drammatica riforma al sistema dell’economia e della politica cinese. Ma in questo frangente una crisi mondiale non potrebbe contare sull’apporto cinese. In tale eventualità è possibile anzi che la Cina si chiuda.
Ciò significa che se nel 2014 l’Italia dovesse accendere una crisi mondiale il risultato complessivo potrebbe essere molto peggiore che nel 2009. Che i leader italiani riescano ad agire rispetto a queste responsabilità pare, alla luce dell’esperienza degli anni scorsi, una vana speranza. Che tale prospettiva spinga forze interne o esterne a muoversi per una rivoluzione o un colpo di Stato in Italia che prevenga o curi l’esplosione della crisi in questo prossimo anno, prima o dopo le elezioni di maggio, pare invece più probabile.