Partiremmo ora da un’ammissione di ignoranza più forte del solito: dalla Cina la situazione italiana è del tutto incomprensibile. Quindi, più di altre volte, partiamo dalle poche cose chiare.
Una di queste è che l’economia non ha ripreso a girare. La spinta non è arrivata dagli 80 euro in busta paga, né forse arriverà dalla nuova legge sul lavoro, il Job Act, che dovrebbe — come per magia — produrre effetti dal 1° gennaio (perché poi?). Entrambi sono stati gesti certo parziali, quasi per definizione insufficienti. Ma al di là delle mille polemiche che da qui spesso paiono bizantine sul perché queste due manovre o non abbiano funzionato, o si apprestino ad avere scarsa efficacia, resta il fatto che si è trattato di spinte troppo deboli di fronte a una situazione interna e internazionale sempre più fosca.
A livello internazionale la scivolata del prezzo del petrolio di fronte a varie crisi aperte in paesi produttori (Libia, Iraq, Iran, Venezuela, Russia tutti sotto pressione per motivi diversi) indica varie cose: una debolezza della domanda mondiale; che con la nuova tecnologia dello shale gas senza le crisi il petrolio costerebbe quasi meno dell’acqua; che la Russia, in perdita con il petrolio a meno di 90 dollari il barile, rischia di avvitarsi e crollare in un annetto creando un vuoto geopolitico forse più grande di quello del crollo dell’Urss nel 1992.
A ciò si aggiungono fattori europei. Dopo il fallimento di tre premier di fila (Berlusconi/Tremonti, Monti, Letta) la fiducia europea verso il governo Renzi è oggettivamente scarsissima e si teme che nuovi sfondamenti della soglia del 3% del Pil non vadano ad attivare l’economia reale ma servano ad arricchire vecchie baronie che hanno trasformato lo Stato in uno strumento pubblico per tutelare interessi privati.
Finora queste baronie non sono state toccate dalle misure del governo, e anzi c’è il sospetto che Renzi si sia alleato con parti di esse per arrivare al potere. L’intreccio, spesso pernicioso, di parti della grande burocrazia pubblica con imprese del parastato è un tappo per lo sviluppo italiano come e forse più della rigidità del lavoro.
Infine, la crisi internazionale e la contrazione del Pil italiano limitano il potere di ricatto dell’Italia per l’economia mondiale. Un tempo l’Italia poteva dire di essere troppo grande per scoppiare, quindi tutti dovevano correre a salvarla. Espellerla dall’euro avrebbe rischiato di fare saltare la moneta unica (innescando probabilmente una crisi finanziaria globale) e in più avrebbe reso l’Italia una specie di libero battitore come e più della Gran Bretagna, mettendo sotto pressione il resto dell’Europa sul lungo termine.
Oggi che scoppia tutto dappertutto, l’Italia non è speciale, il suo peso specifico diminuisce e diminuirà, e ciò avvicina l’ipotesi — vecchia ma sempre cara al nord Europa — di euro a due velocità: un euro forte per paesi forti e un euro deboli per i deboli. Così l’Italia rimane sotto controllo (non ha l’indipendenza di manovra di una lira tutta autonoma) ma non può più ricattare nessuno.
Qui però si rientra nella politica-politica. Nemmeno le grandi rivoluzioni si fanno partendo da zero. Non ce la fece Mao Zedong in Cina durante la rivoluzione culturale o il suo emulo estremo Pol Pot in Cambogia, qualcosa del passato deve restare. Per Mao fu la tradizione estrema del primo imperatore, Qin shi Huangdi (un altro rivoluzionario) che voleva distruggere il passato per creare un nuovo futuro.
Ma se i rivoluzionari non ci riescono, tanto meno possono riuscirci i riformatori. Quindi per forza Renzi, o chiunque altro al suo posto, non può che allearsi con la parte più sana (o se vogliamo, meno insana) della struttura politica e per riformare il paese ha bisogno delle riforme istituzionali… quelle cominciate prima dell’estate e che ora non si sa bene dove siano, perse dietro quella che pareva l’emergenza del Jobs Act.
In realtà pressioni europee ed esigenze politico-istituzionali interne pare abbiano obbligato il governo a un pendolo tra riforme istituzionali e interventi nella macro-economia. Il pendolo appare incoerente forse perché lo è e tutto è avvenuto a casaccio. Ma forse (pensando al meglio) perché non è stato strutturalmente spiegato e pensato, cosa normale per chi è dentro una situazione. Tutti abbiamo bisogno di qualcosa di esterno, almeno uno specchio, per capire noi stessi.
Solo che ora il pendolo, come succede talvolta, rischia di fare impazzire la già instabile maionese italiana. Infatti, a fronte di una crisi economica che non dà segni di miglioramento, avanza il redde rationem istituzionale. Si addensano le voci delle dimissioni del presidente Giorgio Napolitano. Inoltre con la fine del semestre italiano, conclusosi senza troppo lodo, ma anche senza infinita infamia, si riaccendono le pressioni per elezioni anticipate.
Questi sono due punti interrogativi infiniti. Ancora non è affatto chiaro (ma questo sarà senz’altro un errore di prospettiva) quando sarà pronta la legge elettorale e quale sarà. Nei mesi scorsi sono state presentate varie versioni, ma finora sono state tutte cambiate, quindi forse è opportuno attendere la legge definitiva.
La cosa più urgente però è il capo dello Stato. Oggi Renzi in teoria ha un enorme potere per sceglierlo, in un parlamento futuro non v’è questa certezza. Ma tale potere è poi solo teorico, perché i suoi deputati gli sono fedeli solo in parte e comunque deve fare i conti con Berlusconi che, se pure semi pensionato, vorrà un capo dello Stato a lui non ostile. Infine, con Napolitano quasi 90enne, molti, Renzi per primo, temono una supplenza di Pietro Grasso, oggi presidente del Senato e successore costituzionale a Napolitano in caso di incidenti.
In realtà i tempi, vista dalla Cina, paiono strettissimi, diciamo fino ad aprile. Allora, come probabile, l’Italia sarà ancora in recessione e lo spread tra titoli italiani e titoli tedeschi potrebbe di nuovo impennarsi, anche perché è incerto a livello tecnico se l’Italia allora ce la farà a ripagare gli interessi sul suo debito. C’è infatti la possibilità non remotissima di un default italiano come quello dell’Argentina.
Occorrerebbe per allora avere il successore di Napolitano pronto a guidare la barca in mezzo alla burrasca, e a questo Renzi deve pensare ora. D’altro canto concentrarsi sull’elezione del presidente quando la ripresa legata al Job Act appare un miraggio, l’economia mondiale e interna è in affanno, toglie ulteriori speranze di ripresa di sviluppo e aumenta i rischi di default. È un gioco di equilibrismo senza fine che fa cedere i cuori più forti.
In ciò la fibra di carattere di Renzi è finora l’unico grande collante. Al di là della superficialità dell’annuncite via twitter, che ha caratterizzato il suo inizio, il premier sta mostrando il fiato e la tenacia del maratoneta. Quindi ad oggi il calcolo è che se pure l’economia non potrà riprendersi fino a marzo prossimo, lui ce la farà a scegliere il prossimo presidente.
Ciò salvo incidenti. Questi potrebbero essere i risultati delle prossime regionali che saranno letti in maniera ultrapolitica come in maniera ultrapolitica Renzi stesso ha letto il suo 40% alle europee. Alle regionali è improbabile che Renzi rinnovi quel 40% e quindi: 1) sarà esposto a una specie di linciaggio pubblico, più o meno specioso, 2) parti del suo partito e del parlamento gli si ribelleranno contro. Tutti motivi per affrettarsi alle presidenziali.
Il toto-presidente in effetti è già cominciato e questa è la cabala più difficile. Serve un uomo che non dia ombra a Renzi, non sia infido a Berlusconi e soprattutto sia affidabile ad europei e americani, visto il suo ruolo chiave in questi anni a venire e l’inaffidabilità quasi strutturale dell’Italia. Questi dovrà aiutare il presidente del Consiglio ad attuare le necessarie riforme strutturali del paese. Per intanto, i prossimi mesi potranno essere molto bui.