In ogni battaglia e ogni guerra, alla fine vince chi rimane in piedi, quello che riesce a prenderne di più senza rimanere a terra, e non chi sferra più colpi. Da questo punto di vista il premier Matteo Renzi pare avere la scorza del vincitore, vista la sua attuale provata resistenza agli assalti delle forze contrarie. Ma d’altro canto sarebbe ingenuo pensare di non calcolare il peso degli attacchi altrui e non cercare di schivare le sberle future. Nei giorni scorsi infatti il premier ha subito la seconda cocente sconfitta del suo mandato, dopo la bocciatura in Europa del suo candidato agli esteri per l’Unione, l’attuale ministro degli estri italiano Mogherini.



Giovedì scorso il governo è andato in minoranza al Senato in un’importante votazione per la riforma costituzionale. Renzi nelle ore successive ha fatto una parziale marcia indietro e si è detto disposto a ridiscutere di alcune norme sul voto di preferenza e il giorno dopo il voto in Senato è andato meglio. Certo, Renzi è ritornato, con grande grinta, come se nulla fosse accaduto. Altri al posto suo avrebbero perso smalto e si sarebbero fatti intimidire. Però i due episodi mostrano che Renzi è battibile sia all’estero che all’interno (interessante la sequenza: prima estero, poi interno) e quindi uno sforzo concentrato potrebbe buttarlo giù.



Qui vi sono vari elementi che vanno calcolati insieme. Il pubblico, interno ed esterno, ancora non capisce cosa significa questa riforma costituzionale. Renzi ha trovato una formula efficace di spiegare lo sforzo in corso: questo è il Pin che accende il telefono. Va bene, ma che telefono ci dobbiamo aspettare, ammesso poi che sia il Pin giusto e non quello sbagliato, che blocca tutto. E slogan contro slogan, i suoi avversari hanno facile gioco nel dire: la fine del Senato elettivo è indemocratico. Sarà uno slogan eccessivo, ingiusto, ma Renzi per primo si è messo nel gioco degli slogan e per uscirne dovrebbe spiegarsi meglio, forse (crediamo) prima all’estero poi all’interno, come nella sequenza delle sue sberle. Il tempo qui potrebbe non essere dalla sua parte.



Sempre la settimana scorsa il governo ha ammesso che l’economia non va come auspicato e l’allargamento degli 80 euro di detrazione fiscale, il suo primo risultato concreto, è in forse. In conti in autunno potrebbero peggiorare e come ha sapientemente sottolineato Isabella Buffacchi nei giorni scorsi sul Sole 24ore, i banchieri internazionali sanno che il basso spread dei titoli italiani contro i bund tedeschi è irreale vista la situazione del paese. La situazione potrebbe radicalmente cambiare per una fiammata di spread in autunno, o anche prima, poiché ad agosto il volume delle trattative diminuisce poche transazioni mirate possono spingere in alto o in basso gli interessi. Da Washington, dove ora siamo per qualche giorno di lontananza dalla Cina, pare non esserci animosità per Renzi, ma nemmeno sperticata fiducia. Dopo i fallimenti di Monti e Letta, il tempo e la pazienza accordati a Renzi sono minori che per i suoi predecessori.

In ogni caso, dalla distanza, Renzi ha un punto di forza vero. Dall’inizio ha preso di petto i poteri costituiti italiani, e vuole scardinare il sistema di privilegi incrociati che blocca tutto e impedisce ogni politica di lungo termine. Il punto però è che l’Italia ha insegnato all’occidente l’arte degli specchi e delle ombre incrociate e del cambiare tutto per non cambiare niente. Il premier attuale, è un nuovo gattopardo, o è vera rivoluzione? È chiaro oggi che quasi 70 anni fa, i Democristiani furono rivoluzione vera e trasformazione profonda del paese, sotto però una bandiera di conservazione e continuità. Loro portarono l’Italia da un paese rurale a uno industriale, dal sottosviluppo al pieno sviluppo, adottando una specie di Gattopardo alla rovescia, dissero di non cambiare niente per cambiare tutto. Di Renzi non si sa.