La vittoria del no ad Atene apre una pagina di enorme incertezza nell’Europa e nel mondo, dove i mercati erano già sotto pressione per la crisi della Borsa di Shanghai che ha perso circa un quarto del suo valore negli ultimi giorni. Facile pensare che sotto la doppia pressione di crisi della Borsa in Cina e della grande incertezza nell’eurozona si possa nei prossimi giorni scivolare nel caos.
In queste ore il governo greco che ha rifiutato la proposta europea si sente più forte e dichiara di volere riaprire le trattative; del resto anche in Europa in queste ore si fanno più forti le voci di chi chiede di tornare a trattare e di non chiudere ogni porta. Ma i margini di manovra sono oggi più stretti per l’Europa e soprattutto l’esempio greco di trattativa spietata a rischio di far saltare tutto e tutti da oggi incoraggia tutti quelli (e non sono pochi) che non vogliono l’euro o lo vogliono solo alle proprie egoistiche condizioni particolari. Ciò rischia di sfilacciare l’Europa e indebolire l’euro al punto tale che domani anche i maggiori europeisti potrebbero essere in ritirata. Le conseguenze globali e per ciascun paese sono incalcolabili.
Una nota di ottimismo forse viene dalla bizzarra vicenda di due porti, entrambi greci di origine, uno però oggi sotto il governo di Roma e l’altro sotto quello di Atene.
Sono rispettivamente Taranto e il Pireo, uniti dalla diversa fine della trattativa con lo stesso investitore, il colosso della logistica Hutchinson Whampoa (Hong Kong). Dopo il fallimento del tentativo, durato oltre un decennio, di trasformare Taranto nel centro portuale del Mediterraneo e dell’Europa i trasportatori di Hong Kong hanno deciso di emigrare dall’Italia (in teoria sulla via della ripresa) alla Grecia (in teoria verso la bancarotta).
Questo certamente non indica la fortuna greca contro la sfortuna italiana o viceversa, ma forse nemmeno è un elemento indifferente come segnale di un atteggiamento complessivo dei due paesi verso le prospettive future.
Da una parte (in Grecia) certamente è chiaro che bisogna tentare di agganciarsi alle sorti progressive dell’Asia, dinamo economica del mondo oggi e sempre più nel futuro, tanto più che tale aggancio arriva con minimi costi, specie se confrontati con le attuali richieste europee.
D’altra parte (in Italia) per motivi certo complessi e comunque incomprensibili da qui, tale aggancio con l’oriente è stato respinto, segnale comunque che l’Asia è lontana dalle priorità di Roma. Ciò potrebbe essere indifferente o quasi nel breve periodo, ma rischia di essere dannosissimo nel lungo.
La storia del Pireo forse è anche un segno della forma mentis dei politici greci, i quali al di là del radicalismo ostentato magari sono più pragmatici e strategici di quanto appaiono. I greci, che vinca il sì o il no, infatti, dichiarano di volere restare in Europa, diversamente da quanto pare stesse facendo il governo italiano di Berlusconi nel 2012 quando venne brutalmente rovesciato da una spietata guerra dei tassi di interesse.
I governanti greci dicono di volere un nuovo patto europeo e ciò a cominciare dalla pesante ristrutturazione del loro debito. Ma in ciò la direzione di marcia economica qual è? Quella che impone Tsipras o quella che chiede Bruxelles? In questi sei anni, da quando è scoppiata la crisi dell’euro dopo il crack finanziario del 2008 in America, l’Irlanda si è ripresa, la Spagna sembra sulla buona strada, l’Italia dà segnali positivi, la Grecia ha distrutto il 20% della ricchezza nazionale e non pare in condizioni di ripresa.
Come ha scritto Francesco Giavazzi, c’è il problema dei giovani che non capiscono gli ordini di Bruxelles e sono con il premier ellenico Alexis Tsipras; c’è una questione di fiducia europea, come sostiene Alberto Alesina; c’è un problema di deficit di democrazia, come afferma Paolo Savona visto che dei tecnocrati decidono il più; c’è il problema opposto del populismo montante, visto che le questioni finanziarie in ballo sono incomprensibili ai più dei votanti i quali vogliono invece risposte semplici, e magari anche semplicistiche.
Questo semplicismo di cui mezza Europa accusa oggi il governo greco è dovuto anche alla mancanza di idealità europea e di governo politico, visto che Bruxelles chiede risultati numerici e se ne infischia di come tali risultati sono raggiunti. È questo il deficit più grave dell’Europa: non si può stare insieme solo perché così ordinano i ragionieri.
Ci vuole un progetto, un’idealità comune per gli europei che non c’è. Le coppie non stanno insieme perché così fanno quadrare meglio i conti personali risparmiando sulla spesa o sull’affitto: stanno insieme perché si amano, poi certo anche i conti devono quadrare, ma non il contrario. Dov’è l’amore in Europa?
In sua mancanza la Grecia ha tentato una strategia della tensione sui conti, ricattando Europa e mondo. È poco, è costoso ma ammissibile, perché la Grecia può uscire dall’euro.
L’Italia no. L’Italia se provasse a fare la metà della Grecia metterebbe il coltello alla gola a tutti, compresa la Cina oggi nelle peste di gravi turbolenze alla sua Borsa di Shanghai.
L’Italia quindi in realtà ha meno margini di manovra della Grecia, ma rischia comunque di esserne danneggiata. Un’uscita della Grecia dall’euro o una grande ristrutturazione del suo debito mette l’Italia nella linea di fuoco della speculazione internazionale. Inoltre la campagna demagogica di Tsipras, ancorché fosse vana, aizza facili populismi di tutti i tipi in Italia dove i Grillo e i Salvini stanno scaldando i motori sognando futuri ruoli analoghi.
Così mentre il problema di fondo rimane, la creazione di una positiva idealità e politica europea, la crisi greca non è finita con il referendum. Nuove future turbolenze elettorali possono rimettere in questione ogni decisione presa domenica. La crisi greca non è finita perché si staglia sempre l’ombra della crisi italiana, il singolo maggior debitore d’Europa, e perché manca una cornice politica europea.
Manca una lingua comune: in Asia tutte le élite politico-intellettuali parlano in inglese, in Europa ciascuno parla la sua lingua. La vecchia comunità del carbone e dell’acciaio, genitrice dell’attuale Ue dopo la seconda guerra mondiale, doveva creare un’Europa libera contro il passato della minaccia fascista e il presente delle minaccia comunista. Oggi perché davvero dovrebbe esserci l’Europa? Se è una mera questione di soldi, allora, come nel peggiore dei mercati, perché non tirare di più?
Ciò è sbagliato, perché ogni trattativa commerciale estrema rovina il mercato, fa somigliare gli scambisti a truffatori. In questo, al di là di ogni accordo che si raggiunga, la Grecia è riuscita a infangare l’Europa e anche per questo la Ue dovrebbe riuscire a ergersi al di sopra delle battaglie dei conti.
Oggi però quale leader europeo vuol provare a definire un’idealità europea? Quali ne sono i limiti e dove li pone? In Ucraina o oltre? In Turchia, Marocco o oltre? In teoria il progetto cinese di ricreare una nuova via della seta e rilanciare i porti mediterranei potrebbe aiutare a creare una nuova identità europea come punto terminale di un grande scambio economico, sociale e politico che darebbe senso a tutte le varie parti di Eurasia attraversate dalla via della seta.
Questi sono discorsi a cui Bruxelles forse dovrebbe pensare parlando con Atene. Ma non è possibile che Atene detti i termini dell’unione all’Europa. Questa vittoria elettorale di Tsipras con elettori spaventati, disoccupati, impoveriti è una vittoria di debolezza non di forza, ed è questa debolezza che potrebbe far crollare tutto.