Nella fragilissima situazione italiana, e in attesa di qualche lume o che qualche colpo di vento arrivi dalla scelta del nuovo presidente americano, eletto il 6 novembre, la politica si agita molto. Ma tale agitazione non si sa se abbia o meno un costrutto.
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha importato dagli Usa la tecnica del confronto a due, decisivo per gli americani, in cui i due avversari si scambiano colpi come su un ring. In Italia la versione che sta andando è quella di “Renzi contro tutti”. Nei dibattiti a due infatti il presidente del Consiglio si misura con giornalisti e politici e forse vuole un faccia a faccia con i suoi avversari per antonomasia, Massimo D’Alema o Beppe Grillo. Se Renzi riuscisse a portarli con sé davanti a una telecamera forse avrebbe già vinto la sua posta.
Non è chiaro cosa succeda al referendum costituzionale del 4 dicembre. Improbabile oggi che vinca il Sì, ma pare che l’idea di Renzi sia di assumersene in pieno l’onere, così se anche vincesse il No lui potrebbe dirsi leader di quella minoranza non minuscola (forse un 40%) che ha invece scelto il Sì. Quindi se Renzi batterà D’Alema o Grillo si sarà affermato come un campione di lotta-dibattito, al di là che vinca o perda i contraddittori.
Se D’Alema e Grillo invece eviteranno il ring tv, potranno essere dipinti come vili dal premier-gladiatore tv. Queste sue virtù di lottatore mediatico per altro oggi appartengono solo a lui e lo fanno spiccare. Nessun altro si è lanciato in una simile maratona di dibattiti, e solo se qualcun altro lo facesse il piano della comunicazione sarebbe reso uguale. Quindi Renzi spicca, anche se nella sua ansia di dibattere spacca il paese. È lui, l’arcangelo salvatore, contro tutti; ma è possibile che occorra fare fuori mezza Italia per salvarla? Così, però, cerca il consenso della sua minoranza. Quindi a suo modo Renzi si è preso una serie di precauzioni e ha incapsulato la politica italiana. Gli basterà però a salvare il governo?
Qui entra un altro elemento. Il recente incontro a tre fra il presidente Sergio Mattarella e Silvio Berlusconi, forse favorito da Renzi stesso, a giorni dall’avvenimento rimane avvolto dal mistero di speculazioni e voci. Ma sembra forse definire i margini di una cosa che sta a cuore a tutti e tre: il dopo referendum. La scelta del No da parte di Berlusconi, al di là delle sue preferenze personali, certo serve ad assicurare che il merito di avere sconfitto Renzi non vada tutto ai 5 Stelle.
Ma oltre a questo Mattarella pare voglia andare al voto con una legge elettorale che dia una maggioranza chiara e faccia uscire il paese dalla palude attuale. Cioè in caso di vittoria del No occorre un piano B da presentare ad americani ed europei per dire: l’Italia non crolla e può navigare a vista fin quando almeno si siano chiariti i più importanti profili politici in Francia (con le presidenziali in primavera) in Germania (con le elezioni parlamentari in autunno) e nel Regno Unito (dove incombe sempre il Brexit). Questo piano di fare una nuova legge elettorale e temporeggiare poi è utile anche a quelli di M5s che, come dimostra l’esperienza della Raggi, sono ancora ben lontani dalla maturità di governo e hanno bisogno di tempo.
Questo anno di attesa di cosa farà il mondo apre le varie forze politiche a prospettive diverse.
Renzi dovrà assicurarsi una forma di sopravvivenza politica dopo l’eventuale sconfitta. Tale sopravvivenza non è scontata, visto che tanti nel suo partito e fuori lo vogliono annientato. Il suo partito poi odia sì Renzi, ma non sa con chi sostituirlo. Si trova così nella vecchia trappola, già nota dai tempi di Prodi, di rischiare di far fuori il suo leader solo per regalare il governo ad altri.
Berlusconi ha problemi simili. Deve garantire la sopravvivenza delle sue aziende (sotto pressione per la concorrenza di internet e la proposta di acquisto di Vivendi) e della sua forza politica. L’ex Cavaliere, a 80 anni, politicamente bruciato, non può più guidare il partito, ma i due maggiori leader oggi in lizza, Brunetta e Parisi (entrambi antichi sodali di De Michelis) non hanno voglia di riconciliarsi ed entrambi appaiono con delle pecche. Brunetta è troppo aggressivo, Parisi troppo poco sugli eventi del giorno.
Restano i M5s che hanno il vento in poppa ma sono settari e dilettantistici. In teoria i due difetti sono facilmente risolvibili: si prendono professionisti da fuori e si diventa tolleranti. Ma questo rischia di alienare i duri e puri del partito, e soprattutto, se il processo avviene senza accortezze, si rischia di sbracare nel puro sottogoverno di Franceschiello. Qui il problema vero di loro, ma anche degli altri: che vogliono fare dell’Italia, qual è la loro strategia? Onestà-onestà non basta.
Gli altri certo, non hanno neppure questo slogan, ma a differenza loro possono vantare di conoscere la macchina del governo. Quindi diventa una scelta fra “professionisti corrotti” contro “dilettanti allo sbaraglio”? Se è così, dentro o fuori, la maggioranza rischia di scegliere sempre “professionisti corrotti”.
In realtà, visto dall’esterno tutte e tre le formazioni dovrebbero imparare a unire più che a dividere. L’Italia, piaccia o meno, è una e occorre abbracciare il più possibile, non dividere. Questo processo però non sembra ancora cominciato.