Con la calma del dopo-voto referendario e senza la tempesta di emozioni a caldo appare chiaro come la prospettiva dell’Italia sia ora quella di andare alle elezioni alla scadenza naturale delle Camere, nel 2018, e non anticipatamente, come urlavano subito quasi tutti.
Ciò non perché ci sia un equilibrio forte in parlamento o altrove, ma proprio perché la situazione è altamente instabile.
Per arrivare a questa conclusione basta fare un po’ di conti all’indietro. La prima data utile per andare al voto dopo avere fatto una nuova legge elettorale è a giugno-luglio. Le elezioni italiane si collocherebbero quindi a sfortunato cavallo del voto per le presidenziali francesi e per il parlamento tedesco.
In Francia il candidato di estrema destra Marine Le Pen potrebbe andare al ballottaggio a maggio con un candidato socialista o uno conservatore. Anche se ora i sondaggi sostengono che il vincitore sarà François Fillon, nessuno li prende sul serio dopo i fallimenti dei rilevamenti registrati in Gran Bretagna (Brexit), America (Trump) e Italia (referendum).
Anche in Germania pare che Angela Merkel, roccia della stabilità europea, debba vincere, ma chi ne è sicuro ormai? Senza Fillon e senza Merkel la stabilità complessiva europea sarebbe molto più fragile, dopo che ora l’America di Trump si disinteressa dei destini dell’Unione e la Russia potrebbe essere più baldanzosa.
In questa situazione nessuno al mondo vuole elezioni in Italia che scombinino ancora di più il delicato momento tra il voto francese e quello tedesco. Quindi è molto improbabile che le pressioni internazionali permettano all’Italia di prepararsi al voto prima di novembre-dicembre, quando sarà ben chiaro cosa è successo in Francia e Germania.
Inoltre, non è che il voto in Italia a giugno chiarirebbe granché. Nessuno sa chi vincerebbe e che equilibri emergerebbero tra sei o nove mesi. Il Pd è in confusione totale. Nonostante Renzi sia ancora segretario del partito, e abbia due dioscuri al governo, pare non sapere bene cosa fare, né il partito sa cosa fare senza di lui, o con lui. Nessuno nel Pd sa a che numeri guardare, dopo la confusione del referendum. L’unica cosa certa sarebbe che se si va al voto con Renzi segretario, l’ex presidente del Consiglio farà le liste e controllerà il partito con fermezza. Ma questo avvantaggerebbe solo Renzi, non altri. Per questo Renzi e il Pd dovrebbero avviare un forte e complessivo ripensamento.
Gli emergenti M5s non stanno molto meglio. La vicenda di Roma dimostra non solo che il neosindaco Raggi è un’incapace, ma che tali potrebbero essere anche gli astri nascenti Di Maio e Di Battista che l’hanno scelta e sostenuta: politici per caso. Loro stessi sono i maggiori beneficiari della fortuna di M5S. Se il movimento avesse uno smacco alle elezioni cosa farebbero? Prima della loro ascesa politica non avevano una professione e un futuro. Improbabile vogliano ripiombare nel precariato da cui sono miracolosamente emersi. Grillo ha creato una classe di neoprofessionisti della politica che forse non sono disonesti (almeno per ora, ma il potere corrompe, si sa). Di certo però non sono all’altezza di amministrare il loro nuovo potere. Fra sei mesi questi problemi potrebbero essere facilmente maggiori e non minori. Anche per loro servirebbe una dose di profonda meditazione e ripensamento.
Forse alla luce di tutto questo le prospettive della destra sono più chiare. Qui Berlusconi occupa uno spazio ancora cruciale, perché ha una sacca di consensi, i media e le tasche per dare ossigeno o toglierlo a suoi eredi o rivali. Salvini e la Meloni stanno occupando spazi importanti ma non centrali, perché troppo estremi. La loro forza potrà essere quella di condizionare la politica del centrodestra ma non di determinarla. La loro è una forza di ricatto che può crescere o diminuire, ma non è dalla loro posizione che si guida l’Italia.
Per il resto Berlusconi non sembra intenzionato a fare emergere alcuna alternativa. Sarà un’impressione cinica (del resto, che volete, dalla Cina?) ma il Cavaliere sembra interessato principalmente a mettere in ordine i fatti suoi, la vendita del Milan a cinesi veri o presunti, e quella di Mediaset a Vivendi, con o senza l’accordo fra le parti che sia. Facile che ciascuna di queste delicate operazioni possa deragliare. In questo frangente il Cavaliere, entrato in politica anche per salvare i suoi affari, mette a rischio i suoi interessi per fare concorrenza al governo? Quindi finché Berlusconi non avrà sistemato i fatti suoi è probabile che non voglia vedere emergere un leader di destra che gli rompa le uova nel paniere.
Né ci sono risorse e spazi per una destra moderata senza di lui, come sta sperimentando il tenace Stefano Parisi, ex candidato della destra a sindaco di Milano.
Le prospettive quindi rimangono di navigare a vista, almeno fino alla sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale, stando poi al dibattito che seguirà sulla legge futura.
In tale confusione forse per una volta, dopo Natale del resto è d’obbligo, c’è una nota di ottimismo. Senza nessuno partito forte, e senza nessuna prospettiva chiara in esiti del voto o del futuro, è possibile che la legge sia pensata in maniera da riflettere oggettivamente le esigenze del paese e non quelle di un vincitore.