Nel voto del referendum italiano forse solo come raramente nella storia del paese il tempo si è diviso in un Prima e un Dopo. Naturalmente è il dopo che a questo punto conta, ma ciò passa da una chiara percezione del prima. Il commovente e sentito discorso del premier sconfitto Matteo Renzi è forse il più potente concentrato delle ragioni per cui ha perduto. Lui ha diviso l’Italia in “io che volevo cambiare il paese” e voi “con cui ho sbagliato a comunicare”. Renzi innanzitutto si autoassolve: il suo errore è stato di comunicazione, non di avere fatto una battaglia sbagliata sulla Costituzione. Potrebbe essere fattualmente giusto, ma sarebbe stato ancora più giusto, nel momento della sconfitta, aprire un fronte di dubbio più ampio, di un ripensamento rotondo: era giusto condurre quella battaglia oltre che farla a quel modo? Questo minimizzare lo spazio dell’errore porta alla ragione forse più importante: “io” che volevo cambiare e “voi” paese.
Renzi spessissimo usa nei suoi discorsi questa contrapposizione io-voi, io faccio X ma voi dovete fare la vostra parte, dovete ascoltarmi, dovete votarmi eccetera. Ma questa è una contrapposizione molto rischiosa, da cattivo maestro di scuola, da capo scout, che si basa su un equilibrio fragilissimo: la fiducia degli alunni, degli scout verso la loro guida. Se questa fiducia si incrina, c’è la rivolta. Se i ragazzi riescono, bene, ma se falliscono, falliscono loro, il maestro le cose le sa. I ragazzi in sostanza sono soli. Questa contrapposizione può funzionare per sfide facili, in cui gli studenti si sentono soddisfatti e pieni di sé nel superare l’esame da soli. Ma quando la sfida è difficile o faticosa i ragazzi si sentono abbandonati, ed ecco che la fiducia si logora o si spezza e di conseguenza accusano il maestro di averli lasciati da soli. In Cina, dove gli studenti sono sempre chiamati a sfide quasi impossibili, la maestra usa con gli studenti un pronome specifico “zanmen”, il “noi” che esplicitamente include gli interlocutori (diverso dal “women”, il “noi” che può includere o meno l’interlocutore). Significa che la maestra dice: Zanmen-noi dobbiamo imparare a memoria questo brano, le tabelline, 100 caratteri alla settimana. Sono tutti compiti ardui, ma che i ragazzini sentono più leggeri perché non sono soli, sentono che il maestro è dietro di loro, e se loro falliscono, fallisce anche il maestro.
La rivolta è più difficile allora (ma anche più radicale quando accade) perché il fallimento è in genere collettivo. La ribellione avviene solo quando gli studenti, dopo ripetuti errori, pensano che il maestro li inganni con insegnamenti scientemente o incoscientemente sbagliati. I due approcci hanno ciascuno vantaggi e svantaggi. Il primo consente ai ragazzi di crescere rapidamente da soli con un maestro bravo o meno, e le rivolte sono limitate a fare da soli. Ma cresce poi la sfiducia totale in maestri e guide e quindi anche l’anarchia.
Nel secondo caso invece (specie con maestri bravi) i ragazzi non diventano indipendenti, e anche quando si rivoltano esasperati contro un cattivo un maestro è solo per cercarne un altro. L’insegnamento ideale forse sarebbe quello dei vecchi parroci che dicevano “noi peccatori” mettendosi insieme al gregge, ma anche dicevano “fate come dico, non come faccio”, suggerendo che il popolo ha un cammino di avanzamento indipendente. Per Renzi ci pare — da questa distanza — che nel chiamare il paese con un io-voi a un compito arduo abbia spaccato l’Italia in due. Io so come fare e lo farei anche, ma voi non sapete fare, e il mio errore è stato non saper comunicare. Forse è stato più profondo: è stato non saper comandare, e non capire che le due cose sono facce della stessa medaglia, come spiegava in un libro capolavoro (in parte tradotto anche in Cina) il generale Fabio Mini. Questa appare oggi la sfida dell’Italia: occorre saper comandare e per fare questo bisogna unire l’Italia con uno “noi” da parroco, a volte inclusivo a volte no. Chiunque vinca nel prossimo futuro deve impararlo altrimenti l’Italia, e l’Europa, rischiano di scivolare ancora. Oggi il noi inclusivo non c’è nei grillini settari e separati in noi-loro, e non c’è nel centro destra che separa in noi-amici dei giudici.
La separazione è parte della storia italiana, si dirà, sì, ma con una ragione di unità profonda, che era quella raccontata da Guareschi nella profonda similitudine e amore tra il suo don Camillo e Peppone. Questa unità e amore vanno recuperati oggi, al di là delle divisioni di schieramento, che è giusto rimangano perché altrimenti è l’inciucio di palazzo. Oggi la sfida vera è capire che il centro sono le classi medie, grandi beneficiarie della crescita economica e sociale del dopoguerra, ma queste oggi si stanno assottigliando e impoverendo. Questo è uno tsunami sociale che sta investendo la politica e che la politica non sa affrontare perché va al di là di vecchie ricette e slogan facili. Questa realtà può essere capita e affrontata solo in termini globali, perché nasce a quel livello. È insieme frutto e miccia di quella guerra mondiale a pezzi in corso oggi di cui parla il papa. Da qui forse occorre ripartire per trovare il noi che sia anche zanmen della politica italiana.