Dalla distanza si perdono i dettagli, dove si annida il diavolo, si sa, ma pare proprio che il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo nei giorni scorsi si sia scagliato contro la politica, condannando i politici e santificando implicitamente ed esplicitamente i magistrati. Ciò è l’ennesima puntata di un drammatico scontro fra istituzioni che pare la degenerazione della divisione dei poteri di una democrazia e il ritorno ai conflitti tra corporazioni.
Al di là di chi abbia torto o ragione, chi è onesto e chi disonesto in questa disputa che dura ormai da 20 anni tra magistratura e politici, lo scontro è chiaramente un male profondo del Paese. Dall’esterno appare appunto come il ritorno alle lotte tra gilde in cui non c’è il singolo magistrato o il singolo politico che vengono individuati per responsabilità personali, ma un intero settore che fa quadrato contro un altro settore allo scopo di far prevalere la propria visione del mondo, e il proprio potere.
Il punto dei punti pare questo, alla fine: devono contare più i giudici, interpreti della legge, o i politici espressione della volontà popolare attraverso il voto? L’idea della democrazia parte da una ricerca di equilibrio fra i poteri, che si basa sull’aspettativa di un compromesso per il bene comune dello stato. Qui sembra mancare invece una idea comune dello stato tra politici e magistrati.
Forse è la storia di lungo periodo che prevale. Dal Medioevo in poi l’Italia è stata dominata dalle associazioni professionali che cercavano di espandere i propri diritti/privilegi a spese di altre associazioni professionali, i tessitori contro i banchieri, contro i notai, contro i fabbri. Forse Mussolini, capendo bene l’anima profonda del Paese, reintrodusse l’idea delle corporazioni sapendo di toccare una corda profonda dell’Italia. Le categorie, ciascuna con i suoi piccoli o grandi privilegi (i notai, i farmacisti, i giornalisti, i magistrati…) sono rimaste una grande idea, un punto di riferimento ideologico, un modo di vedere il mondo. Ma le corporazioni medioevali, così come quelle di Mussolini, trovavano la mediazione nel signore, padrone della città, o nel duce, padrone del paese.
Quindi lo scontro tra la “corporazione” dei politici contro quella dei magistrati polverizza il paese e ci riporta alla ricerca di un potere assoluto che solo riuscirebbe a calmierare lo scontro. Questo è il fallimento dell’equilibrio fra poteri, base ideale e sostanziale della democrazia moderna, ma forse c’è anche di più. La difficoltà profonda in vent’anni di trovare un compromesso utile è indice di una mancanza di volontà generale nel paese. Cioè i singoli italiani non si sentono tutti “italiani” allo stesso modo.
Ogni sistema di potere per funzionare ha bisogno di una volontà generale. Anche in Cina, dove il sistema è più gerarchico e chiuso, gli scontri politici si risolvono alla fine con un compromesso. A un certo punto una fazione accetta la sconfitta perché sa che a trascinare la lotta il paese sarebbe minato e quindi anche lei — la fazione con i suoi esponenti — come parte del paese, sarebbe danneggiata. Lo stesso accade altrove. Nelle elezioni tra George Bush e Al Gore, nel 2000, Gore si ritirò perché trascinare lo scontro avrebbe rovinato l’America.
In Italia non si riesce a trovare una fine forse per due motivi: è più profonda l’idea della gilda e poi la fazione è innestata in un corpo istituzionale (la magistratura o il governo) che ne tutelano e rinforzano l’idea di non essere una parte ma il tutto, o meglio la parte preponderante del tutto.
In questa situazione allora le vie sono due: o una parte vince ridefinendo i confini istituzionali della parte avversa (la magistratura è ridisegnata o lo sono i poteri del governo) oppure la degenerazione del paese continuerà.
Ridisegnare i confini istituzionali di magistratura o governo senza cadere in un regime molto autoritario è molto difficile, e per questo occorrerebbe una forte spinta ideale che faccia appello a tutto, amici e nemici, portandosi dietro tutti i Davigo e i Verdini, i Di Pietro e i Berlusconi, perché tutti sono italiani e parte dell’Italia, ed è impossibile massacrarli tutti.
Ma il compromesso per funzionare davvero non può essere al minimo, nella divisione di fette di torte o briciole di pane, ma deve poter far crescere tutto su un piano più alto per tutti.
Il problema è che i voti sembra si conquistino in Italia con l’estremismo di facciata pubblico al quale subentrano poi i patti di divisione del formaggio privati. Questa sembra la corruzione più profonda del sistema, quella che non ormai non convince il 50 per cento degli italiani che si rifiutano di andare a votare.