Nel celebre Romanzo dei Tre Regni (San guo Yanyi) che racconta le sorprendenti vicende della fine della caduta dell’Impero Han e l’inizio di una lunga fase di divisioni e guerre nelle pianure centrali, l’eroe non è il potente e terribile Cao Cao, a nord, che cerca di raccogliere e ricostruire l’impero degli Han. Non è neppure lo stato di Wu, al sud, erede spirituale del forte e culturalmente distinto stato di Chu, distrutto mezzo millennio prima dall’unificazione dell’impero. L’eroe è il minuscolo stato di Shu, abbarbicato tra le selve montane del sud ovest, alle pendici del Tibet con il suo stratega magico Zhuge Liang.



Allo stesso modo il vincitore della più recente versione dei tre regni, la guerra tra comunisti, nazionalisti (Kuomintang o Kmt) e giapponesi, tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, fu un erede mentale di Zhuge Liang, il comunista Mao Zedong. Mao, il più debole dei tre, praticamente finito, ridotto alla fame e ai minimi termini nelle anguste grotte di Yan’an, manovrando tra tutti gli attori in gioco e guadagnandosi anche la neutralità simpatetica degli americani, e il sostegno antipatizzante dei russi, ebbe partita vinta.



Quella che abbiamo visto in questi giorni alle elezioni amministrative è stata una versione italiana della guerra dei Tre Regni: il Pd, la destra e M5s più il contorno debito di liste civiche e candidati indipendenti, come in Cina negli anni Trenta ci furono generali e signori della guerra che muovevano alleanze a destra e manca pur di sopravvivere.

Così oggi — vista l’Italia dalla Cina — sembrano esserci diverse e separate lezioni da prendere per ciascuna delle parti in lizza.

La prima va ovviamente al partito di governo, il Pd del premier Matteo Renzi. Esso è stato sonoramente sconfitto ma non totalmente travolto. Ha tenuto nella sua antica isola di Bologna e per un soffio ha vinto a Milano, con un candidato pescato da fuori delle sue fila tradizionali, Beppe Sala.



Ma la sconfitta a Torino, più ancora che quelle attese a Roma e Napoli, indicano fragilità profonde che potrebbero diventare laceranti già nelle prossime ore, quando la Gran Bretagna si appresta al referendum sull’uscita dall’Unione Europea (Brexit) il 23 giugno. Che la Gran Bretagna esca o meno dalla Ue, è chiaro che Renzi e il Pd non possono affrontare soli e isolati il referendum di autunno. L’Italia ha bisogno da Renzi di un appello all’unità nazionale per mettere in sicurezza un referendum che oggi appare all’estero il primo e vero passo per cominciare a rimettere in ordine l’Italia.

Che la Gran Bretagna esca o meno dall’Ue è chiaro che il problema non è Londra ma Roma. I timori delle fragilità italiane, sia sul fronte finanziario, sia sul fronte della barriera agli immigrati dalla Libia, sono i fantasmi che stanno spingendo tanti britannici alla tentazione di uscire dalla Ue. 

Quindi che il 23 i britannici escano o meno, il 24 la realtà del bubbone italiano diventerà esplosiva. Da oggi, allora, Renzi deve fare appello a tutti per far passare il referendum elettorale, non può essere un referendum su Renzi. In un referendum su Renzi la riforma della costituzione rischia di essere bocciata. Con un appello alla nazione Renzi invece potrebbe trovare nuova vita, mentre le amministrative gliel’hanno tolta.

Per il M5s la teoria è più semplice mentre forse la realtà è più difficile. Oggi hanno Roma e Torino da governare, che non sarà facile. Tanto più difficile forse anche per gli strani contratti che il direttorio del partito ha imposto ai neo-sindaci. Di fatto il direttorio dovrebbe governare per procura e la libertà dei sindaci sarebbe molto limitata. Non è chiaro quanto poi sia efficiente tale procedura e soprattutto rischia di corresponsabilizzare direttamente tutto il M5s per gli errori di ciascuna amministrazione.

Il M5s deve soprattutto dimostrare di sapere governare. Se lo farà soprattutto a Roma, sarà a metà del guado. L’altra metà è fatta dai rapporti con la magistratura, le possibili inchieste, il rapporto con la cittadinanza che non è M5s; la capacità di gestire le proprie storture organizzative, per esempio il ruolo bizzarro che Kim Jong un-Casaleggio junior ha nel direttorio del partito, i contratti da centralismo democratico via legale; i conflitti inevitabili tra i leader eletti a furor di popolo, come la Raggi a Roma, e quelli non eletti, nei fatti, come Di Maio e Di Battista. I non eletti, per contratto controlleranno gli eletti: questo quanto a lungo sarà sostenibile?

Ma poi alla fine se a Roma si raccoglierà la spazzatura, si copriranno le buche e si riporterà la viabilità il più sarà fatto. La questione è: la Raggi riuscirà a riportare l’ordine in una città diventata quasi tutta una Suburra, come in un romanzo di Giancarlo De Cataldo?

Il terzo polo, quello dove potrebbe esserci uno Zhuge Liang o un Mao Zedong è la destra. Frantumata, ancora più che divisa, l’unico risultato vero la destra lo ha preso al primo turno, dove nel profondo sud, in mezzo alle montagne della Calabria “saudita”, nelle terre del vescovo Galantino, a Cosenza Mario Occhiuto ha vinto subito con il 60% dei consensi. Lì la sinistra era sotto il 20% e i M5s non sono mai stati una minaccia. Lì la destra ha vinto semplicemente perché ha saputo governare bene e ha fatto una campagna moderata, senza odi e acrimonie verso alcuno. È stata la stessa campagna di Parisi a Milano in sostanza, che ha perso ma solo a un soffio del candidato di governo Sala, in qualche modo suo alter ego, comunque fuori dai toni magniloquenti di altri. 

Per numeri e importanza strategica il risultato di Milano dà a Parisi un posto alla guida della nuova destra. Questa non può essere guidata da Salvini o Meloni, troppo estremisti e truculenti, espressione di una pancia vera dell’Italia che però non sarà maggioritaria almeno con loro. Anche perché estremismo per estremismo il Grillo Furioso, con l’agitarsi disordinato di barba e capelli intercalato da battute semiserie sull’universo mondo, sarà sempre più facinoroso di Meloni o Salvini.

Altri elementi della complessa cabala italiana sono poi i potenti proconsoli locali, il de Magistris, confermato sindaco di Napoli e senza un padrone. Questi cosa faranno? Fino a ieri la partita era giocare di sponda con il Pd, da domani potrebbero essere invece anche sponda per i M5s, a cui appaiono vicini come temperamento. Ma il Berlusconi che sdoganò la destra estrema 25 anni fa potrebbe oggi forse anche sdoganare questi neo Masaniello.

Infine si torna al Pd di Renzi. In questo clima di tutti contro tutti, senza un appello all’unità patria e un lavorio vero di unità per il futuro, nessuno può escludere una rivolta interna del partito. Il governatore della Puglia Emiliano da tempo fa sapere di stare riscaldando i motori e i deputati Pd, davanti alla prospettiva di un massacro elettorale prossimo, potrebbero imbizzarrirsi. Il Pd ha una storia di tradimenti e golpe contro i suoi leader. Del resto Renzi è arrivato così al potere. Per il suo bene, e il bene dell’Italia, si annodi una cravatta, magari si tolga anche le lentine e rimetta gli occhiali, e cominci, per favore, a fare il padre della patria. Lui ne ha bisogno prima di tutti.