Settimane dopo le elezioni amministrative, il cui effetto è stato moltiplicato dal voto inglese sul Brexit, dall’attentato dell’Isis a Nizza e dal fallito golpe in Turchia, destra e sinistra appaiono ancora paralizzati. Al contrario il M5s sembra proiettato in una marcia trionfale inarrestabile, e in questo prende dallo spirito del Grande Timoniere Mao Zedong.
Secondo il celebre slogan di Mao infatti “c’è grande disordine sotto il sole: la situazione è ottima”. Mao non era uomo di pace. Ha costruito la sua storia personale approfittando sempre di condizioni di grande confusione e caos, come nella guerra civile contro i nazionalisti del KMT ondeggiando tra banditi e signori della guerra vari, e poi nell’ancora più caotica guerra civile contro i giapponesi con alleanze e tradimenti tripli e quadrupli con americani, russi, nipponici.
Dopo la conquista del potere Mao avrebbe dovuto governare il paese e costruire, ma per questo non aveva pazienza e dal 1957 iniziò una serie di movimenti politici che tennero il paese in uno stato di permanente incertezza e instabilità. Ci fu prima la campagna per la collettivizzazione della terra, che portò in comuni popolari i terreni che il Partito aveva precedentemente distribuito ai contadini. Poi arrivò la campagna dei Cento Fiori, che incoraggiò gli intellettuali a parlare apertamente; di seguito arrivò il movimento contro la destra che mise gli intellettuali in prigione. Quindi ci fu il Grande Balzo in Avanti il cui fallimento portò a una carestia devastante che uccise di fame fra 30 e 60 milioni di persone. Arrivò allora una ridistribuzione della terra negli anni Sessanta che diede origine all’infame Rivoluzione Culturale (1966-1976).
In tutto questo Mao soffriva durante i periodi di calma e trionfava durante il caos: così il paese doveva soffrire per tenerlo al potere.
Il problema dell’Italia in questi giorni, dove c’è la gara a chi grida più forte e chi le spara più grosse, pare sia: chi ha interesse al caos? Chi invece vuol sanare i problemi? Come abbiamo notato in passato, il fatto che circa il 50 per cento dell’elettorato non sia andata a votare prova che la maggioranza degli italiani non si sentono comunque rappresentati da questa classe di politici, non dall’ex rottamatore Matteo Renzi, non dall’anti-immigrati Matteo Salvini, e neppure dal rivoluzionario Beppe Grillo.
Chi scrive non sa chi siano i non votanti e di preciso perché non votino. Difficile anche che lo rivelino con precisione nei sondaggi, visto che vogliono restare tanto anonimi da non esprimersi neppure nel segreto dell’urna. È possibile però pensare che siano moderati, visto che oltre l’80 per cento degli italiani possiede almeno una casa. È probabile che siano insoddisfatti dell’andazzo attuale, visto che il loro tenore di vita è gradualmente scivolato negli ultimi dieci anni, ma non vogliono una rivoluzione che metterebbe a rischio la casa e forse qualche piccolo lavoro o rendita. Questa è la pancia forte del Paese attorno a cui sono cresciute, nonostante tutto, migliaia di piccole e medie imprese di eccellenza.
Queste persone certamente vogliono un cambio di passo e una “rottamazione” del vecchio e del corrotto, ma non vogliono diventare come la Libia. Questa realtà impone forse diverse tattiche a tutte e tre le forze in campo — destra, sinistra e M5s — per raggiungere quel 50 per cento di non votanti. Mi scusino i lettori per la mancanza di partigianeria, ma da lontano quello che è importante è l’Italia, non i singoli partiti e sei i partiti fanno a gara per il bene degli italiani allora davvero il Paese ne guadagna.
I grillini hanno le condizioni migliori ma le sfide più difficili. Le condizioni migliori perché la situazione è caotica e loro sono un partito “rivoluzionario” che ha provato di saper volare proprio nelle situazioni di caos. Quindi incertezza per il Brexit, paura di nuovi attentati Isis dopo Nizza, paura di colpi di coda turchi dopo il fallito colpo di stato, sono tutti elementi che pompano acqua nello stagno dove l’M5s va a nuotare. Le debolezze sono esattamente quelle che affrontò Mao: le strutture per la rivoluzione sono differenti e opposte a quelle di governo.
In particolare potrebbe andare bene che un partito appena nato e in crescita si organizzi intorno a una società privata per la raccolta dati Internet, come la Casaleggio e associati. Ma questa società dovrebbe sparire quando il partito è cresciuto, riceve finanziamenti pubblici dallo stato e deve obbedire a convenzioni di trasparenza proprie della democrazia. La presenza di Casaleggio junior (non eletto da nessuno) che riceve il posto nel direttorio del partito grazie all’ambiguità dell’organizzazione iniziale, diventa una palla al piede che si appesantisce man mano che ci si avvicina al potere centrale. Si dovrebbe quindi arrivare a una separazione netta e incontrovertibile fra partito e impresa. Questo cambierebbe la natura del movimento e sarebbe tra l’altro strumentale al passo successivo.
Il M5s, con decine di comuni ormai da governare, tra cui le importantissime città di Roma e Torino, deve dare prova di fare meglio degli altri, cosa estremamente difficile visti i problemi oggettivi delle città. A Roma i casi delle nomine date a cugini e parenti, il doppio incarico alla Consob e al Bilancio del comune di un assessore, non depongono a favore.
E’ bizzarro poi che il candidato premier in pectore sia un ragazzotto di appena 30 anni senza alcuna esperienza né grandi studi. Ha i congiuntivi a posto (a differenza di tanti suoi colleghi di partito) ma certo non conosce l’Abc nel mondo, come ha dimostrato la sua recente confusa visita in Israele e Palestina. Berlusconi nella sua prima fase si riempì di professori indipendenti. Era un vecchio modello, seguito da Dc, Pci e Psi. Dopo il Cavaliere se ne liberò, ma in un primo momento questi portarono un enorme bagaglio di relazioni e conoscenze che permise al Cavaliere di governare (va anche detto che quando sostituì i professori con le signorine aitanti cominciò la sua discesa agli inferi).
Di certo per Roma e Torino M5s non ha messo professori in prima o seconda fila, ma ha scelto ragazze bellocce. Per governare però occorre scienza; dove sono i quadri intellettuali (per usare un gergo rivoluzionario) reclutati?
Ma forse sono ingenuità dell’inizio. Tutte però sono sfide del passaggio da partito rivoluzionario a partito di governo. Queste sfide devono essere affrontate rapidamente perché strutture confuse e rigide, responsabilità di potere e mancanza di quadri con conoscenze possono creare un mix pericoloso per il partito e il paese.
Per la sinistra e la destra le sfide sono quasi di riflesso. La sinistra innanzitutto. Renzi è andato al potere promettendo rottamazione, in realtà ha rottamato solo il vecchio nel suo partito, carezzando invece il vecchio dei partiti altrui o della grande impresa. Il messaggio dato al paese è quindi confuso: il vecchio va davvero rottamato o meno? O non è questione di vecchio ma di pura convenienza tattica? Inoltre in oltre due anni Renzi, che pure aveva sostegno generale, non ha aggregato, non si è fatto veri amici, non ha delegato e si è isolato. Fa tutto e pensa a tutto lui, ed è talmente assorto nelle sue cose che anche nelle visite di stato non presta attenzione agli interlocutori ma gioca al telefonino. Ma nessuno gli ha detto che oltre che maleducazione questo è anche un rischio enorme, visto che così tanti possono entrare nel suo telefono e sapere tutto di lui?
Certo l’isolamento lo ha protetto dalla corruzione imperante di Roma, ma gli ha impedito di creare un ampio consenso intorno al suo progetto. La mancanza di deleghe poi ha creato una palude: il presidente-segretario è l’unico che fa, ma dato che non è onnisciente può facilmente sbagliare e in secondo luogo quello che non fa lui in prima persona semplicemente non si fa.
Inoltre pare che Renzi non sia un uomo per le tempeste. Si è inserito in un momento di confusione con una faccia pulita, doti di comunicazione e intuizione rapida di alcuni problemi. Ma man mano che la situazione si è fatta complessa, il governo dell’esecutivo e del parlamento è diventato un pantano, lui ha perso grinta e ha cominciato a girare sempre più a vuoto, commettendo sbagli su sbagli. Firenze era un comune ben più facile da governare di Palermo, Cosenza, Bari, Milano o Roma, e forse allora non aveva esperienza sufficiente per pensare di governare l’Italia.
Oggi in realtà il partito dovrebbe cambiarlo oppure deve cambiare lui. L’uomo è giovane, coraggioso, tenace ma deve cambiare la testa: scegliere uomini nuovi, delegare di più (i bravi Padoan e Del Rio dopo essere scomparsi appaiono di più) e strutturarsi diversamente. Se non lo farà è perduto, perché dopo due anni di governo ha semplicemente perso la magia. Per ritrovarsi deve escludere gli yes-men e davvero ascoltare quelli che, leali, gli hanno messo i paletti. Questo significa certo uscire da un bozzolo confortevole, ma è il volto vero dell’azione di governo.
Né vale l’idea, tutta “salotti romani”, di una grande alleanza destra-sinistra contro M5s. Ciò sarebbe un’ammissione di sconfitta come nient’altro e consegnerebbe davvero il paese ai 5 Stelle. Se tutte le vecchie forze devono riunirsi per battere il movimento allora davvero il movimento merita di vincere: questo sarebbe il messaggio che recepirebbero gli italiani, votanti o meno.
La destra ugualmente dovrebbe specchiarsi nel lago delle proprie perdizioni. Spappolata, ultra sconfitta, se vuole vivere non può aggrapparsi alla speranza di uno scambio di poltrone con baratto di voti con la sinistra. La lezione del M5s è stata che c’è un’Italia ben più grande e forte delle aderenze dei vecchi partiti, e che non ha voce. Se non si parla a quell’Italia, si perde.
L’Italia disperata che si rivolge ai 5 stelle o che non vota, in teoria è un’Italia di destra, che vuole vivere tranquilla. Si sente minacciata ma non salviniana. Qui Salvini e company possono salvarsi, trovare un alveo, ma mai diventare egemoni, perché in Italia i repubblichini, come i partigiani stalinisti, sono stati sempre pochissimi.
A destra però manca tutto. Ci sono i parlamentari ma manca un partito che abbia un contatto con i votanti. I voti bisogna andarseli a ritrovare uno per uno. La partita a destra è disperata, per animi fortissimi, ma ha le potenzialità maggiori, perché gli elettori sono lì, come capì due decenni fa Berlusconi quando non si arrese allo scioglimento della Dc e fondò il suo partito. La questione è: oggi qualcuno a destra ha la forza e lo stomaco di sfidare Grillo e Pd insieme e rifondare il partito?
A bocce ferme, la prospettiva è chiara: i 5 Stelle sbaragliano, il Pd va all’opposizione in cerca di anima e la destra scompare. Ma le bocce non sono ferme né in Italia né altrove e molte cose potrebbero andare diversamente.