È cominciato il dopo Renzi. Come quei refoli gelidi che in piena estate, in mezzo al caldo asfissiante, spolverano via una manciata di foglie dagli alberi e annunciano l’arrivo della stagione fredda, così il premier Matteo Renzi pare fermamente sul viale del tramonto, incapace di scuotersi da quel torpore invernale che lo ha colpito.
Forse era un uomo per le belle stagioni, le frasi a effetto e le risposte pronte, buono a gestire una macchina che funzionasse anche senza di lui. Ma quando si è trattato di gestire un terremoto, grandi cambiamenti e un apparato in via di disfacimento semplicemente non ce l’ha fatta. O forse c’è che ha creduto alla sua stessa propaganda, ai fedelissimi che lo circondavano, accecati dal timore di perdere un posto nel suo cuore o alla sua tavola.
Forse c’è dell’altro ancora. Di certo in mezzo alla confusione totale del Paese e dell’Europa, mentre il mondo si potrebbe preparare a un attacco alle fragili banche italiane ad agosto, quando i mercati sono più instabili, lui, si mormora, si prepara ad andare in Brasile… a vedersi le Olimpiadi!
In questo frangente si è infranto il maggiore punto di forza di Renzi: l’essere senza alternative. Nei giorni scorsi ormai c’è stato un fiorire di alternative, e per candidarsi nemmeno attendono l’esito del referendum costituzionale, che ancora non si sa quando avverrà e su che cosa voterà di concreto.
Nello stesso partito di Renzi si parla di Pietro Grasso, pronto ad assumere le redini di una compagine istituzional-tecnica, lasciando la guida del Senato. Ci potrebbe però anche essere l’alternativa di Franceschini, il quale si prenderebbe il partito insieme al governo. Oltre ai due in prima fila, ci sono poi ormai coorti di volontari democratici alla presidenza del Consiglio sicuri di fare almeno non peggio di Renzi. Tutti sono certi di non andare alle urne, e di gettare in un dimenticatoio l’ex sindaco di Firenze.
In realtà Renzi rischia di portare con sé, nella tomba, il Pd stesso, che spappolato tra le differenti nature a cui non sa come votarsi, se ai democristiani di sinistra, come Renzi o Letta, o al nucleo comunista nell’anima di D’Alema. Grasso o Franceschini al governo, paradossalmente, potrebbero accelerare la dissoluzione del partito, se non affrontano il problema chiave del futuro della loro formazione.
Fuori dal partito i M5s stanno assumendo profili più governativi, mostrandosi volenterosi di smettere la retorica truculenta degli inizi, gli inciampi organizzativi, per imparare a governare. Roma certo è difficilissima, in mano a mafie e imbrogli di ogni tipo, ma se riuscissero solo a non farsi prendere con le mani nella marmellata, mostrandosi appena più professionali di Marino, potrebbero farcela.
Di certo la loro debolezza è quella di essere quasi totalmente incompetenti e prendersi competenze da fuori potrebbe essere non facile, e portare problemi di coerenza con il movimento. Perché un professionista esterno dovrebbe avere più potere della Taverna, militante della prim’ora? E certo il professionista, se davvero tale, non si farà guidare a comando da Di Maio o Di Battista.
Questo è un problema antico. Tutti siamo capaci di capire quando una torta non è buona, ma farne una buona non è affatto da tutti. Oggi è la sfida del movimento. Sì, sappiamo che nella torta ci vanno le uova fresche non quelle liofilizzate, il latte vero, non i coloranti, il lievito naturale e non quello chimico, ma anche così è facile fare una torta immangiabile, tanto che quella vecchia industriale e inquinata alla fine può funzionare molto meglio di quella della cuoca onesta ma pasticciona.
Infine, in pochi giorni, quasi come un’araba fenice, pare stia rinascendo dalle sue ceneri la “destra” data per scomparsa solo un mese fa. Stefano Parisi a Milano sta ricostruendo una formazione che annuncia liberale e popolare. Naturalmente qui si tratta di scalare l’Everest. Occorre tenere l’eredità di Berlusconi e magari anche rilanciarla in una chiave nuova. C’è l’occasione e la sfida data dal fatto che un semi-emulo di Berlusconi, Donald Trump, sta scalando la Casa Bianca in America. La stampa di tutto il mondo ha fatto il paragone.
L’altra sfida, più grande, è quella di proiettarsi verso il grande pubblico: quel 50% di aventi diritto che si sentono traditi da tutti e non vanno più a votare; quel 30% di voti disperati che si sono rivolti al M5s; o quelli che si aggrappano disperati al Pd. Solo se Parisi riesce a raggiungere questi davvero vince, anche a costo di perdere dei pezzi. La perdita di pezzi, del resto, è già iniziata con la Lega Nord di Matteo Salvini che gli ha voltato le spalle nei giorni scorsi.
Sembra un compito impossibile, ma almeno in un posto è stato fatto. Nelle ultime amministrative a Cosenza, antico baluardo della sinistra in una Calabria bianca, ha trionfato un moderato, Mario Occhiuto. Questi ha sbaragliato tutti con il 60% al primo turno, compresi gli uomini della destra più retriva che gli si erano rivoltati contro. Impossibile pensare di replicare per l’Italia l’esperienza di Cosenza, ma questo prova che per Parisi ci sarebbe una via. Certo questa “via”, questo Tao della politica, deve avere caratteristiche italiane, non cosentine.
È questa forse la vera lezione cinese per Parisi e per tutte e tre le formazioni che si combattono. Nel 1941, alla fine della Lunga Marcia, nelle grotte scavate nel loess, ai confini del deserto e delle steppe mongole, Mosca aveva mandato uno squadrone di 28 bolscevichi cinesi addestrati in Urss a riprendere il controllo del partito. I 28 erano arrivati carichi di armi, di soldi e di ideologia. Erano tutti gli strumenti per tenere in mano un partito-esercito fatto di sopravvissuti a vent’anni di guerra aperta o clandestina e composto da un mix di intellettuali, figli di buona famiglia votati all’ideale, e banditi convertiti alla propria salvezza “comunista” sulla via della forca.
Per Mao Zedong, l’intellettuale mezzo bandito, emerso come uno dei leader del partito-esercito, si trattava di tenersi le armi e i soldi respingendo, almeno in parte, l’ideologia sovietica. Questo si poteva fare combattendo i 28 bolscevichi sul loro terreno, dimostrando con teoria e prassi che la Via, il Tao, era diverso.
Mao inventò così la teoria delle “caratteristiche cinesi” che diceva, in due parole: il comunismo sovietico è un grande ideale, ma va applicato alle situazioni effettive pratiche, altrimenti semplicemente fallisce. Vent’anni di sopravvivenza militare dimostrano che io, Mao, so come muovermi in Cina; datemi la guida del partito o moriamo tutti. Il partito, ma anche Mosca, aderì a questa tesi. Tutti allora sperando forse solo di sopravvivere. L’Urss poi voleva mantenere una spina nel fianco del Giappone, il quale non faceva mistero di ambire anche alla Siberia sovietica dopo avere conquistato tutta la Cina.
In realtà il Tao di Mao fu così efficiente da prendersi tutto il Paese. Così oggi la domanda è: chi fra i tre partiti italiani riuscirà a inventarsi un Tao per l’Italia efficiente? Chi lo farà, al di là di ogni alleanza di palazzo, si prenderà l’Italia.