I sondaggi paiono chiari: il referendum per approvare la riforma costituzionale ad oggi perde. I Sì sarebbero attestati intorno al 35 per cento. Questo un po’ perché il premier Matteo Renzi ci ha messo la faccia, e oggi tanti in Italia quella faccia vogliono fargliela perdere; un po’ perché al grande pubblico gli articoli modificati sono incomprensibili e la riforma pare bizantina; un po’ perché c’è una naturale incertezza e paura di fronte al nuovo.

Questi tre elementi possono essere deboli se presi da soli, ma insieme creano una miscela fortissima. Tanto più che gli argomenti a favore del Sì invece appaiono molto più fiacchi in solitudine o in combinazione.

Per il Sì giocano in sostanza la necessità di continuità di governo e il bisogno di concentrare poteri sull’esecutivo. Ciò serve a modificare alla meno peggio un edificio, come la Costituzione italiana, architettata per evitare concentrazioni di potere, e sostenuta per 45 anni da una regola tacita: i comunisti non avrebbero mai dovuto prendere il potere. In realtà, quando nel 1989 dopo il crollo del muro e dell’Urss crollò anche il veto al potere del Pci, la costituzione andava rivista. Così non è stato e l’Italia si è trovata in una situazione per molti versi sostanzialmente anarchica.

Ma questa ragione alta, di avere maggiore concentrazione di potere per ragioni di efficienza di governo, può far paura a tanti italiani che un simile potere non vogliono dare a Renzi. Questi già oggi, a costituzione vigente, si muove con sicumera. Non delega, decide tutto da solo e se ne vanta, fa e disfa solo dentro il suo giglio magico, e odora quindi di Caudillo. Figuriamoci con una riforma costituzionale che lo avvalla.

Tutto questo però è solo il discorso interno buono per gli italiani, ma gli italiani non sono gli unici padroni dell’Italia e l’Italia è a sovranità limitata. Ciò non per fandonie complottistiche diffuse da certa pubblicistica, ma semplicemente perché il 60 per cento del debito pubblico italiano, il cui totale è oltre il 130 per cento del Pil, è nelle mani degli stranieri, americani ed europei in testa ma non solo.

Inoltre, piaccia o no, l’Italia ha ceduto sovranità nel momento in cui ha acceduto alla moneta unica, acquisendo in cambio alcuni diritti di sovranità in tutti gli altri paesi dell’euro. È uno scambio equo, normale: io ti do il 30 per cento delle mie azioni e in cambio ho diritto al 10 per cento delle azioni del tavolo più grande.

Tali premesse danno conseguenze specifiche. Se io non sono in grado, per qualunque motivo, di esercitare il mio potere al tavolo più grande europeo non è colpa dell’Europa, ma mio. Dopodiché il disegno attuale europeo certo ha pecche enormi e va urgentemente riformato, ma ciò non cambia la debolezza dell’Italia a parlare in Europa non solo sulle questioni sue interne, ma sulla direzione generale dell’Unione e le politiche dei vari paesi.

Certo, alla fine, i lacci dell’euro non pesano nell’immediato sul referendum. Quello che ha un peso è invece il 60 per cento del debito degli stranieri.

A costoro gli italiani hanno detto da anni, destra, sinistra e centro, che il sistema italiano va riformato. Ora che il sistema si riforma (e nessuna riforma è perfetta), gli italiani votano No alla riforma; e perché? Che succede? Che è successo? Chi è padrone di una somma pari a oltre tre quarti del Pil italiano si spaventa a morte, anche perché non ha risposte. Finora aveva capito che l’unica via d’uscita era il Sì, così gli hanno detto tutti; ora perché — si chiede — voi state cambiando le carte?

Allora altro che interferenza nella politica italiana è stato l’intervento dell’ambasciatore Usa a Roma Phillips quando ha detto che con il Sì al referendum l’Italia è sicura! Si tratta invece del fraterno avviso di una parte finora completamente dimenticata della propaganda referendaria.

I padroni dell’Italia per il 40 per cento sono italiani, per il resto sono stranieri che fuggiranno dal Paese se non li si convince, se non si parla loro, se li si trascura con arroganza come è stato finora. Phillips ha insomma detto quello che nessun politico italiano ha osato dire: c’è una dimensione internazionale della crisi italiana che gli italiani non possono permettersi il lusso di trascurare, per il bene dell’Italia e del mondo. Perché la fuga degli stranieri, tanto per mettere i puntini sulle i, significherebbe il collasso economico del paese.

Il caso italiano è unico. È vero che per esempio la Gran Bretagna ha votato per il Brexit, ma nonostante Londra non sia nell’euro, questa uscita è stata nei fatti congelata e non si sa se e quando avverrà. È vero che il Giappone ha un debito molto più grande dell’Italia, ma è tutto nelle mani dei giapponesi.

Quindi se gli italiani vogliono trascurare i padroni stranieri che essi hanno chiamato in cerca di aiuto, hanno semplicemente due strade: ripagare il debito o fallire. Entrambe le scelte imporrebbero decenni di sacrifici epocali e forse nessuno in Italia vuole farli.

C’è per la verità una terza strada, che a Roma finora ha avuto la meglio: quella di dire in sostanza “faccio quello che mi va, tanto ho un debito troppo grande per farmi fallire”. Ma tale arroganza si indebolisce col passare dei giorni. L’economia italiana si sta nei fatti rimpicciolendo in ambito europeo perché non cresce, quindi un suo fallimento oggi peserebbe meno di dieci anni fa. Inoltre gli stranieri prima di fuggire in massa hanno mille strumenti per far stringere la cinghia all’Italia e costringerla a passi come e peggio di quelli della Grecia. 

Allora il vero nodo che interessa fuori dall’Italia, non è il Sì o il No al referendum, ma la domanda su cosa fa l’Italia con la sua economia. Se non cambia la narrazione che oggi è stata venduta dall’Italia all’estero per anni, che cioè occorre cambiare per migliorare le cose, il Paese va verso il precipizio. Poi occorre pensare che il messaggio all’estero deve essere semplice — cambio sì o no —, perché i cambi romani sono incomprensibili in Italia, figuriamoci all’estero.

Queste tesi in mano al populismo imperante diventano poi una chiamata alle armi: i fili stranieri vogliono il Sì, allora io voto No.

Perciò, dovrebbe vincere il Sì per spegnere la miccia di questa bomba, bomba la cui presenza invece può essere usata per utilità italiche di bottega. O forse occorrerebbe da parte della destra, del Pd e di M5s uno sforzo comune di comunicazione all’esterno per sdrammatizzare con gli stranieri l’importanza di questo referendum, e far capire che si parla non solo al 40 per cento ma anche al 60 per cento del debito; ma tutti finora, per ragioni proprie, hanno invece drammatizzato il referendum.

Che fare? In questo mare magnum di incertezza l’America sembra paradossalmente l’unica davvero interessata al bene dell’Italia al di là dei giochi di ciascuno, nella misura in cui solleva una domanda fondamentale: dove vuole andare l’Italia nel suo futuro? Che futuro vede per se stessa nel mondo? Se si risponde con chiarezza a questa domanda, allora forse il Sì o il No al referendum diventano irrilevanti per gli altri e davvero un fatto solo italiano.