Riuscirà Matteo Renzi a salvare Matteo Renzi? Sembra che la decisione alla fine sia solo sua, visto che non ascolta più nessuno, o forse non lo ha mai fatto di ascoltare, chi lo sa. Se il problema fosse solo individuale sarebbe limitato, ma oggi il segretario del Pd rischia di portare dietro di sé l’Italia, con responsabilità potenzialmente storiche.

Per capire il tutto occorre fare un passo alla volta.

Il punto fondamentale nel suo ragionamento è se starà peggio andando al voto a giugno 2017 o nel 2018. Nel 2018 potrei essere massacrato — così pensa —, per limitare i danni devo andare al voto a giugno.

È possibile che sia giusto. Purtroppo la vita non è come alla playstation, dove puoi provare una soluzione e se non va bene cambi strada, torni indietro nel percorso e ne tenti un’altra. Da lontano ci pare molto più realistica un’ipotesi diversa: a giugno Renzi sarebbe massacrato, ma nel 2018, se facesse passi concreti e veri, forse si riprenderebbe.

Ci sembra infatti che in Italia vi sia un sentimento anti-Renzi fortissimo. L’ex premier è diventato la causa di tutti i mali del paese. Su queste pagine Gianfranco Rotondi accennava al rischio Monte dei Paschi, ma forse è di più.

Renzi ha preso due legnate, una peggio dell’altra: una alle amministrative, l’altra al referendum. La sequenza è avvenuta perché non ha capito la lezione delle amministrative: ha pensato che quel flop non fosse colpa sua, e se una responsabilità aveva era quella di non essersi esposto abbastanza. Con una sua esposizione maggiore, avrà pensato, avrebbe potuto raddrizzare le sorti del voto.

Così non è stato, anzi è successo il contrario: al referendum la sua sovraesposizione ha peggiorato il risultato. Il 40 per cento non è tutto suo, appartiene a tanti che comunque si sono turati il naso e hanno votato Sì nonostante lui.

E così, Renzi dopo il voto che cosa ha fatto? Si è attribuito tutto il 40 per cento. Va bene come propaganda, ma il primo trucco è non credere alla propria propaganda. Se Renzi crede che il 40 per cento sia davvero suo è pazzo, e chi glielo dice gli vuole male.

In realtà i sondaggisti potranno fare meglio i conti, ma all’incirca i voti “di Renzi” (non del Pd o del centrodestra che ha votato Sì) saranno al massimo la metà di quel 40 per cento. Questa percentuale probabilmente sta già diminuendo, perché Renzi appare sempre più un vinto (e all’Italia non piacciono i vinti) e perché non si rende conto che quello che non piace è la sua esposizione.

La crescente popolarità del neopremier Paolo Gentiloni, che non rilascia dichiarazioni, non fa tweet, subisce un intervento e dopo due giorni torna a Palazzo Chigi senza pose da eroe, dovrebbe farlo riflettere. 

Perciò il suo problema non è gestire Gentiloni via sms (che poi finiscono ai fratelli Occhionero o chi per loro). Se si decide di fidarsi della moglie, ciò sia: è folle e controproducente poi riempirla di microspie per vedere se tradisce. Bisogna fidarsi della moglie (o del marito) perché l’altro coniuge ha da fare. In questo caso il compito di Renzi è imparare a fare il capo squadra, non quello che cerca di coprire tutti i ruoli in formazione con gli altri a fare da estensioni più o meno efficienti del suo pensiero.

Quindi deve dotarsi di una squadra, coerente con la strategia, e di un piano che salvi il Paese. Sulla base di questo deve scegliere i migliori, in modo da soccorrere l’Italia ed ergo se stesso. Ma questa non è un’addizione dove a sbagliare l’ordine degli addendi il risultato non cambia; è un algoritmo complesso, dove a ogni passaggio distratto si insidiano errori, e certo l’ordine succitato è quello necessario.

Se invece Renzi pensa prima di salvare se stesso è rovinato. Certo ci vuole coraggio a cambiare ordini di vita dopo essere stato il premier più giovane d’Italia. Il paese però divora politici a velocità supersonica. Per questo deve saper leggere bene i tempi. Nei 38 anni dal crollo dell’impero Qing alla presa di potere dei comunisti nel 1949, la Cina produsse e divorò folle di potenti. Fra questi il presidente nazionalista Chiang Kai-shek sopravvisse perché ad ogni sconfitta si adattò, tirò i remi in barca e ripartì. Il passo più drammatico per lui fu all’inizio degli anni 50 quando, dopo decenni di opposizione, cedette su pressione americana a una riforma agraria radicale che distribuiva finalmente la terra ai contadini dell’isola di Taiwan e distruggeva il vecchio latifondo. Il suo governo era assediato in un’isola che era solo una minima frazione della sua vecchia repubblica cinese. I comunisti lo avevano battuto e avevano praticamente pareggiato con gli Usa nella guerra di Corea. Senza l’appoggio vero della popolazione a Taiwan, da ottenere con una redistribuzione delle terre, Chiang sarebbe caduto presto come un birillo sotto Mao.

Oggi Renzi non è certo nella situazione di Chiang, ma i tempi sono molto più veloci. Per fare un piano, scegliere una squadra e imparare a gestirla ha bisogno di tempo. Fino all’inizio del 2018 è già molto poco. Se affretta i passaggi e va al voto a giugno una prospettiva reale è che il Pd prenda meno del 20 per cento e il M5s abbia la maggioranza assoluta anche col proporzionale. Chi gli dice cose diverse forse sono gli stessi che gliele hanno dette anche per le amministrative e il referendum.

Non solo. Alcuni magistrati in eccesso di solerzia troveranno il modo di mettere sotto processo, lui, la Boschi e tutte le loro famiglie, perché il lavacro italiano avrà bisogno di un agnello sacrificale e lui è più fresco rispetto all’ormai attempato Berlusconi.

Renzi lo farà? Riuscirà a farlo? C’è da sperare di sì, anche se purtroppo non viene da contarci molto.

 

(Traduzione dal cinese di Francesco Sisci)