Mai come quest’anno hanno fatto rumore i commenti e le polemiche per la manifestazione di domenica sera a Roma, quando centinaia di militanti di estrema destra si sono ritrovati in via Acca Larentia e – dopo essersi allineati ed osservato un minuto di silenzio – hanno urlato “presente” e per tre volte alzato il braccio teso nel saluto romano in memoria di chi in quel luogo fu ucciso 46 anni fa.
Il Movimento 5 Stelle ha annunciato un esposto in procura per accertare se sia stato commesso il reato di apologia di fascismo, la segretaria del Pd Elly Schlein ha annunciato un’interrogazione al ministro dell’Interno, il leader di Azione, Carlo Calenda, parla di “vergogna inaccettabile in una democrazia europea”. Insiste l’ANPI con il suo presidente Pagliarulo: “Mi ha colpito che non ci siano state né azioni repressive né preventive nei confronti di una manifestazione di tipo neofascista sostanzialmente annunciata”, mentre deputati e senatori del Pd annunciano il deposito un disegno di legge che renda più efficace l’azione di repressione dell’apologia di fascismo e dei fenomeni eversivi neofascisti.
Fin qui la cronaca. Ma cosa avvenne quella sera del 1978 e soprattutto cosa comportò quell’episodio nei tanti drammi successivi degli “anni di piombo”?
La strage di Acca Larentia prende il nome dalla strada dove allora sorgeva la sede del Movimento Sociale Italiano del quartiere Tuscolano, a Roma. La sera del 7 gennaio 1978, un commando armato aprì il fuoco contro un gruppo di giovani che stavano uscendo dalla sede uccidendo due studenti, il ventenne Franco Bigonzetti e il diciottenne Francesco Ciavatta, colpito alla schiena mentre cercava di scappare. Altri tre furono feriti e si salvarono solo per la prontezza di rinchiudersi dietro la porta blindata della sezione sotto un diluvio di proiettili. Nella tesissima manifestazione di protesta indetta dal MSI poco dopo il duplice omicidio, un altro attivista di destra venne freddato da un colpo di pistola: Stefano Recchioni, un ragazzo che avrebbe compiuto 20 anni solo un paio di settimane dopo.
L’attentato venne rivendicato qualche giorno dopo da una sedicente organizzazione terroristica di sinistra, “Nuclei armati per il contropotere territoriale”, che emise un comunicato: “Un nostro nucleo armato, dopo un’accurata opera di controinformazione e controllo alla fogna di via Acca Larenzia, ha colpito i topi neri nell’esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l’ennesima azione squadristica. Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga”.
Le indagini sui responsabili non portarono mai a una condanna, ma da allora ogni anno, in occasione dell’anniversario, i militanti di estrema destra si ritrovano ad Acca Larentia per ricordare le giovani vittime. Momenti di ricordo pieni di tensione, come nel 1979, quando venne ucciso un militante del Fronte della Gioventù, Alberto Giaquinto, colpito da un proiettile esploso dal poliziotto Alessio Speranza.
Solo nel 1987, grazie alla confessione della pentita Livia Todini, si arrivò a dare un nome a cinque militanti di Lotta Continua che vennero accusati degli omicidi, ma uno di loro fuggì in Nicaragua, un altro si suicidò e i tre che furono portati alla sbarra vennero poi assolti per insufficienza di prove. La procura non ricorse neppure in appello (suscitando altre aspre polemiche) mentre una mitraglietta “Skorpion” usata nell’azione fu poi ritrovata in un covo delle Brigate rosse e fu usata in diversi altri omicidi.
Visto nella sua prospettiva storica, l’episodio di Acca Larentia fu molto diverso dalle decine di assalti che si erano verificati negli “anni di piombo”, perché per molti militanti missini romani fu un “segno”, uno snodo che cambiò la vita di tanti.
L’accusa era che le forze dell’ordine e la magistratura erano “complici” dell’assalto nella logica di creare una ulteriore strategia della tensione. Interessante il ricordo di una ex terrorista nera come Francesca Mambro, presente ai fatti. “Eravamo pochi – ricorda la Mambro –, ci conoscevamo più o meno tutti, con Ciavatta avevamo militato insieme nel circolo di via Noto. La reazione immediata, mia e di tanti, fu la paralisi, come quando ti muore un parente. Ci guardavamo in faccia senza capire e senza sapere che fare, mentre dalle varie sezioni della città affluivano gli altri. Il MSI non ebbe alcuna vera reazione probabilmente per difendere interessi e posizioni che non avevano nulla a che fare con la nostra militanza”.
“Noi venivamo usati per il servizio d’ordine ai comizi di Almirante, quando serviva gente pronta a prendere botte e a ridarle, ma in quell’occasione i leader del partito dimostrarono che se per difenderci bisognava prendere posizioni scomode – come denunciare i carabinieri per il loro comportamento – allora non valeva la pena. Acca Larentia segnò la rottura definitiva di molti di noi con il MSI perché l’atteggiamento tiepido e imbarazzato nei confronti di chi aveva ucciso Stefano (Recchioni, ndr) significava che il partito era disposto a sacrificarci pur di non mettersi contro le forze dell’ordine. Quella non poteva più essere casa nostra e questo segnò per molti un punto di non ritorno”. Di fatto, il passaggio alla latitanza extraparlamentare.
Sono passati 46 anni da allora, ma gli assassini sono rimasti impuniti e mai identificati, da sempre la destra romana ha accusato magistratura, forze dell’ordine e governi di non aver voluto veramente indagare, ed anche per questo l’appuntamento del 7 gennaio fa parte di un rituale che è rimasto scolpito nel Dna di un’intera generazione che da destra “subì” la violenza, oltre che generarla.
Resta ora aperto il dibattito contemporaneo. È facile per una classe politica stracciarsi le vesti vedendo una selva di saluti romani, ma senza ammettere di non aver mai avuto il coraggio ad andare fino in fondo per voler capire la verità e catturare i colpevoli della “strategia della tensione”. Tra l’altro – intervenendo allora – forse sarebbe cambiato il corso della storia italiana e la “firma” (vera o presunta) a molti attentati che negli anni successivi segnarono con gli anni di piombo la vita di tutti e colpirono al cuore l’intero Paese.
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