Da un lato una pronosticata vittoria del centrodestra, che la guida Meloni fa dire più destra che centro; e dall’altro una voluta sconfitta del centro-sinistra, che sembra contare su di un risultato debole della Meloni per promuovere il ritorno ad un governo tecnico.
I rischi della prima di queste prospettive sono già stati esaminati nell’articolo dello scorso 16 agosto ed è inutile ripeterli.
Anche su quel che comporta la seconda prospettiva ci si è già soffermati nell’altro articolo pubblicato sempre nella medesima data su queste pagine, ma più delle parole qui vale quel che si è prodotto durante il passato governo Draghi e nel breve lasso di tempo di questo periodo pre-elettorale: nei sondaggi, FdI è schizzato ad un incredibile 23-24% e la Lega e FI, dopo l’autoaffossamento del governo di “larga coalizione”, hanno interrotto il loro trend calante e ripreso a crescere.
Questo significa una cosa ben precisa e fa presagire l’orizzonte che si dischiuderebbe ad un nuovo governo di Draghi, o alla Draghi, auspicato dal duo Calenda-Renzi e dal Pd (quest’ultimo a prezzo della rinuncia a competere nella prossima tornata elettorale). Significa che la gestione “tecnico-moderata” di questo Paese produce una montante protesta che sposta sempre più a destra la massa di voti raccolti nel 2018 da M5s e Lega (nonostante anche il governo Draghi, seppur obtorto collo, non si sia potuto sottrarre al rinnovo delle temporanee elargizioni “al minuto” inaugurate durante la pandemia dal Conte 2). E lascia presagire che la tempesta economica e sociale, che tutti vengono annunciando a partire dallo scorcio di questo 2022, potrebbe rendere incandescente ed ingestibile il Paese ad un governo con questa ispirazione.
Ed il punto è proprio questo. Un punto cruciale che pressoché tutti tendono ad occultare e che, invece, bisogna capire e considerare.
La politica neoliberista praticata dall’ultimo quarto del secolo scorso e la secessione, che le si è accompagnata, delle élites dal popolo hanno devastato l’Italia (e non solo). Robotizzazione e informatizzazione senza controlli e bilanciamenti dei processi produttivi e globalizzazione selvaggia hanno modificato radicalmente la struttura sociale di questo Paese, mutando la vecchia piramide in una clessidra, tra le cui due ampolle, quella di sopra costituita dalle élites e dalle loro affollate appendici e quella di sotto ove si addensa tutto il resto della società, si è interrotta ogni comunicazione: i ceti medi di un tempo si sono ormai impoveriti ed appaiono rinchiusi entro confini pressoché insuperabili, mentre l’ascensore sociale si è fermato; per non parlare di chi sta più in giù. L’emarginazione delle rappresentanze sindacali e di tutte le altre forme di aggregazione sociale attorno a interessi e valori nel nome della competizione illimitata ha generato l’individualizzazione delle masse e l’avvento di una società liquida che ha frantumato il legame sociale: il pensiero unico dell’individuo e della illimitata ricerca del proprio tornaconto personale ha reso dominante l’idea che ognuno si salva da solo.
Il lavoro è stato scomposto, disarmato e svalutato: precarizzazione e sotto-remunerazione hanno tolto la dimensione del futuro a masse crescenti soprattutto (ma non solo) di giovani. La comunicazione sociale si è ridotta ad un anonimo like e lo stare insieme da dimensione spirituale si è mutato nella mera contiguità topografica di molte solitudini, ciascuna delle quali assorbita dal rapporto con il proprio cellulare: la comitiva è stata sostituita dal gruppo dei followers o – peggio – dal branco retto solo dall’impersonale sopraffazione degli altri, di qualunque altro; le coppie sono insidiate dall’auto-referenzialità e dal tramonto dell’ascolto, della capacità di rinuncia reciproca e dell’idea di costruire un futuro comune, i figli non nascono più e i vecchi sono divenuti un fardello insostenibile; la speranza di un riscatto appare sempre più legata all’espatrio.
Ognuno, guardandosi in giro, può prolungare per molto quest’elenco sconsolante, ma, soprattutto, deve capire che queste emergenze sono tutte legate l’una all’altra: ciascuna è causa dell’altra e ogni suo effetto amplifica la sua causa.
Il neoliberismo pensa di scongiurare questi pensieri con l’idea che questa è la modernizzazione, che la modernizzazione è inevitabile, è la storia, e che essa, alla fine, migliora il Pil del Paese e dispensa pure benefici.
Ma non è così. Sono stato in Bretagna nello scorso luglio. Ho visto un mondo diverso: ad ogni passo ho incontrato mamme con il passeggino, donne giovani o meno giovani con il pancione, treni pieni di coppie che accudivano allegre a due o tre bambini, e via dicendo. Mi è venuto di pensare che, ben al di là della questione della natalità, tutto questo mostra un’apertura della società al futuro e mi è venuto anche di pensare che quest’apertura ha che fare con la circostanza che esercizi commerciali e ristoranti anche in pieno periodo turistico la domenica erano rigorosamente chiusi, che i principali servizi erano ancora pubblici e che la Francia conserva ancora una forte e diffusa presenza pubblica (dal settore delle auto fino a quello dell’industria aeronautica e della cantieristica), che lo Stato è ancora il più importante operatore nella borsa di Parigi, che detiene partecipazioni in più di 1.750 aziende e che rimane dotato di strumenti vigorosi di direzione dell’economia. Mentre quando sono tornato nella mia casa al mare, in Italia, non solo non ho visto più passeggini e pancioni né sulle spiagge né per le strade, ma ho trovato che esercizi commerciali e supermercati erano aperti anche la domenica ed il lunedì di ferragosto dalle 8 alle 21, come in tutte le altre festività durante l’anno. E mi è venuto di pensare alle liberalizzazioni incontrollate del lavoro festivo, alla stura indiscriminata dei contratti a termine e del lavoro dipendente camuffato da partite Iva, fino alle privatizzazioni risoltesi nel sacco delle partecipazioni statali e al pasticcio delle concessioni autostradali. E questo per fare solo qualche esempio.
Certo anche la Francia ha i suoi problemi: i gilets jaunes di qualche anno fa e le stesse tensioni di pochi mese addietro lo provano. Ma la condizione della società rimane un’altra, incommensurabilmente un’altra: lo Stato e l’idea di una direzione pubblica dei processi economici e sociali hanno resistito alle intenzioni liberiste di Sarkozy e dello stesso Macron.
Tutto questo significa una cosa sola e ben precisa, ossia che la modernizzazione si può dare in modo molto diverso e che a fare la differenza è, innanzitutto la politica.
Ma non la politica delle parole recitate “a pappagallo”, con solo apparente grande convinzione, dall’addetto di turno all’intervista del telegiornale (eguaglianza, lavoro, giovani, ambiente, scuola e sanità). A scoprire queste carte – come si fa al poker – si trovano solo “pannicelli caldi”: dalle tasse di successione per i patrimoni superiori a 5 milioni di euro che, dato l’ingegno dei consulenti nostrani e le maglie della legislazione fiscale patria e internazionale, aprono un parterre che può bastare a finanziare l’ingresso nel mondo del lavoro di solo modeste frazioni di giovani o la devoluzione al lavoro dipendente (e non a tutto) di percentuali tanto minuscole del cuneo fiscale da impinguare le buste-paga di appena qualche decina di euro. La contingenza è quello che questa politica soltanto riesce a vedere e che solo la preoccupa.
Bensì una politica memore della carne viva del Paese, composta di prassi e fatti innovativi, soprattutto rivolta ad un orizzonte di speranze tangibili e di progetti di vita, che muova, infine, da una visione della società. La quale politica per esser tale deve toccare le strutture sociali e consistere in ridistribuzioni del potere e delle garanzie: con ragionevolezze pari alla determinazione, con cautela ma con la convinzione che quel cha va fatto non può essere rinviato ad una congiuntura propizia a venire.
Ed è proprio la mancanza di questa politica che si tocca con mano nell’imperdonabile deficit della sinistra italiana, e del Pd che dice di rappresentarla: ha incorporato senza reali condizioni e senza molte remore il cieco disegno neoliberista (e anche un po’ affaristico) dell’establishment, ha intrecciato le sue sorti e i suoi apparati con i mezzi di comunicazione che di questo establishment raccolgono lo spirito e ne diffondono (con piglio quasi intimidatorio) i “sentimenti” e si è radicato nelle élites e nelle loro per lo più compromesse appendici, di solito affamate di micro-poteri, di miserabili privilegi e di piccole prebende. Non solo abbandonando le periferie e gli strati disagiati della società, ma ogni idea di futuro che vada oltre qualche frazione di Pil o qualche piccola percentuale sull’occupazione, che non cambiano di una virgola la qualità del lavoro e l’orizzonte della società.
Al suo interno, certo, esistono più o meno esigue minoranze che ricordano ancora il primato della politica ed il suo compito verso la società. Ma, malauguratamente, su di esse non si può fare gran conto, perché le cosiddette primarie (quando si tengono) rimangono un affare degli apparati e delle clientele, tutti legati al potere locale, alle relazioni che lo sorreggono e alle periferie sindacali in cerca di una promozione politica, che tutti sanno dipendere solo dalle dirigenze nazionali, mentre il sistema delle liste bloccate impedisce ogni reale confronto sulla linea politica che metta in ballo i suoi virtuali elettori. Così il mestiere di queste minoranze finisce per risolversi in complicate trattative per la loro stessa mera sopravvivenza, per testimonianze che lasciano la sensazione di una qualche acquiescenza.
È triste constatarlo, anzi tristissimo. Ma è così. Non è bastata la botta terribile del 2018: nel giro di un baleno Zingaretti è stato costretto alle dimissioni perché tutto tornasse come prima.
Eppure quest’altra politica è la priorità di questo tempo, non serve solo ai ceti disagiati o a chi soffre di più, serve a questa società nel suo complesso, serve a sottrarla alla deriva liberista che la consegna a questa liquidità che tutto scioglie e disperde: una sinistra che la faccia propria è, perciò, una questione che interessa tutti, almeno tutti quelli che pensano la solidarietà come condizione imprescindibile della coesione sociale, di una società vivibile dove il prossimo non sia il competitore da scavalcare costi quel che costi.
Per contro, il Pd sembra proprio un vascello guidato da un pilota automatico che lo mantiene lontano da quest’altra rotta, un vascello cui solo un altro vascello, robusto e determinato, che viene da fuori e segue quest’altra rotta, può fargli cambiare direzione; sperando sempre che non venga fuori un altro Renzi che faccia saltare la bussola.
Bisogna, quindi, guardare oltre questo Pd, al suo esterno, a quest’altro vascello che lo costringa a virare. Ma dove?
Il partito dei verdi e la Sinistra italiana da troppo tempo calcano la scena politica senza cavarne un granché: come l’eterno attor-giovane di un teatrino che rivendica un ruolo da protagonista solo per conservare ancora una piccola parte nella commedia. Meritano rispetto e apprezzamento, ma c’è qualcosa in essi che non va e che anni di delusioni non sono bastati a mettere a fuoco.
Non resta, dunque, che il M5s.
Sembra abbia perso due terzi dei voti del 2018, e che così si sia liberato dalle ambiguità dell’antipolitica e dal peso di molti opportunismi. Ma questo, evidentemente, non basta a dargli un’identità e a farne una forza su cui si possa immaginare di scommettere per il ritorno di una politica che vada oltre la contingenza.
In realtà, un anno fa, dopo la traumatica caduta del suo secondo governo e quando si apprestava a prendere la guida del M5s, Conte qualcosa aveva detto, che poteva far coltivare qualche relativa speranza: l’idea di un “populismo gentile”, “accogliente e intransigente”, “orientato a legalità e diritti sociali delle donne e degli ultimi” e “collocato nel centro-sinistra”.
Quelle parole, che ancora rimanevano piuttosto vaghe, si potevano leggere, però, magari con un po’ di buona volontà, in una direzione promettente. La mancata abiura del populismo, seppur significativamente corretto dal “gentile”, può alludere alla categoria del dentro-fuori, alla spaccatura tra chi ha accesso e chi è escluso, che, oggettivamente, connota la dialettica sociale di questo tempo e offre – piaccia o no – un embrione di analisi della società, che ha ormai sicuri riscontri sociologici e che, però, ogni altra parte politica si guarda bene – e non a caso – dal considerare: perché è densa di conseguenze. Accogliente e intransigente sono un ossimoro, che può ammiccare al buonismo compiacente ma potrebbe anche significare che la politica non può rinunziare al conflitto e che questo tuttavia deve abbandonare le pulsioni alla demonizzazione dell’avversario; com’è della vera democrazia. L’orientamento ai diritti sociali delle donne e degli ultimi può appartenere alla retorica di rito ma può anche prendere senso dalla giustapposizione a diseguaglianze, rendite di posizione e privilegi, ed evocare un insediamento sociale fatto di ceti tagliati fuori dalla rete delle relazioni della politica e del potere, di strati della società marginalizzati, precari ed esclusi. E la collocazione aperta nel centro-sinistra, che è un’assoluta e (almeno allora) rischiosa novità, può ben evocare – piaccia o no – un rimosso di questo tempo, quell’universo originario di valori e visioni del mondo che ancora percorre il senso comune di una parte cospicua di quell’elettorato.
Tutto questo si può pensare sia stato sopraffatto dalla partecipazione alla “grande coalizione” che ha gettato la politica italiana nella palude del conformismo delle competenze salvifiche, e dalla perdita della sponda decisiva di Zingaretti: in mezzo alla palude, e da solo, il M5s si è impantanato ed è stato sempre più malmenato via via che si approssimava la scadenza elettorale. Quali siano il senso e la portata di quelle parole, a distanza di un anno, rimane, dunque, più di un punto interrogativo, un ottimistico, e forse ingenuo, auspicio.
Eppure a quelle parole si aggiungeva una proposizione, che è eloquente e che si può pensare abbia ricevuto qualche conferma: la determinazione di “non subire le lobbies che hanno influenza sul centro-sinistra”: tre anni di governo, per quanto discussi e discutibili, non sono tuttavia bastati a smentirla, tale influenza, l’elezione del Presidente della Repubblica – checché nel merito se ne pensi – l’ha avvalorata e la recente travagliata conferma del limite del doppio mandato sembra averla voluto ribadire. Sembra poco, ma non lo è affatto: se solo si pensa che proprio di questa influenza è morta l’anima di sinistra del Pd. Su questa cruciale differenza, allora, il M5s può costruire un’identità che lo distanzi dalla “sinistra storica” e ne incarni l’anima dismessa.
Nessuno può dire se questo avverrà: Conte non è un Masaniello e il suo cuore non è mai stato troppo “rosso”, ma capisce e sa che deve pur dare un’identità a questo partito, uno spazio politico e una ragione non emotiva di esistere; e tuttavia chi non vuole che questo accada è potente ed ha a disposizione arsenali poderosi. Ma il voto dei cittadini ha qualche chance di decidere lo scontro: un M5s sopra il 10% può, forse, evitare che questa speranza tramonti del tutto ed un M5s che valicasse il traguardo del 15% potrebbe dare scacco al disegno “tecnico” del Pd sorretto dal “sentimento” dell’establishment. Sempreché la destra non stravinca.
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