Continua a ripetere ai suoi amici più fidati che lei è intoccabile, una specie di “Kamala Harris bianca”. Se qualcuno pensa di poterla fare fuori deve sapere che tocca fili ad alta tensione. Intanto si becca l’accusa di maschilismo. Poi dovrà vedersela con i tanti “padrini” che l’hanno sostenuta nella sua lunga e ondivaga carriera. Infatti Paola De Micheli, attualmente ministro dei Trasporti, si è distinta negli anni per aver sostenuto indistintamente e in prima linea – spesso in tv, considerata da molti il volto della sinistra versione pop – Enrico Letta, Pierluigi Bersani, Matteo Renzi e Nicola Zingaretti. Lei ritiene di avere ancora a disposizione il posto di vice-segretaria del Pd, da cui non si è mai dimessa.



Eppure la ministra dei Trasporti è il primo nome che viene in mente dopo la parola “rimpasto”. Diciamo la verità, una ministra pessima, con un vasto carnet di errori e gaffe. A cominciare dallo spinoso dossier su Autostrade, ancora fermo al palo e su cui si sprecano gli aiutini a favore dei Benetton. Fino alla Caporetto dei mezzi pubblici nella seconda ondata della pandemia, da cui ha cercato di difendersi proponendo l’apertura delle scuole il sabato e la domenica, attirandosi l’ira dei sindacati e delle categorie della scuola, le più fedeli, elettoralmente parlando, al Pd. È di ieri la figuraccia per aver raccomandato il suo amico Paratici direttore sportivo della Juventus al capo di gabinetto del ministro degli Interni per accelerare la pratica di cittadinanza del giocatore Suarez.



Insomma, lo sanno tutti che urge un “rimpasto” della squadra di governo. Vi sono anche ministri che sono scomparsi da tempo all’orizzonte e non si sa di cosa si occupino. Altri sono duramente provati dall’emergenza e dai lunghi bracci di ferro con le Regioni e le amministrazioni dello Stato. Altri ancora sono sollecitati da nuovi impegni più allettanti, come ad esempio quello di sindaco di una grande città.

I “rimpasti” sono a volte – nelle democrazie parlamentari – l’unica soluzione indolore, prima di una crisi vera e propria e soprattutto al buio. Lo sanno bene gli eredi della tradizione democristiana, rimasti maestri insuperati della materia.



C’è un momento della vita di ogni Parlamento dove le cose devono cambiare. In passato si faceva riferimento alla simbolica data dei 2 anni, 6 mesi e un giorno, perché era il momento fatidico in cui ogni parlamentare maturava vitalizio e pensione per l’intera legislatura. Oggi le cose sono diverse, ma fino ad un certo punto. C’è anche lo spauracchio della riduzione di un terzo dei posti che lascerà a casa molti eletti. Vi sono partiti che possono aspirare al massimo a riprendere il 50% dei voti del 2018, come nel caso dei 5 Stelle.

Quello che è certo è che la “pentola a pressione” ha smesso di fischiare e quindi o qualcuno pensa ad aprirla o potrebbe esplodere con conseguenze imprevedibili.

È a questo punto che entra in scena il senatore Andrea Marcucci. Marcucci, toscano ed erede della storica famiglia lucchese che ha fatto le sue fortune con la produzione di farmaci, è ritornato in parlamento – dopo una breve esperienza con il Pli nei primi anni novanta – grazie alla sua amicizia con Matteo Renzi. Nel nuovo gruppo al Senato a trazione renziana non ha avuto difficoltà nel 2018 ad essere eletto capogruppo. Con il successivo cambio di maggioranza nel partito e con l’elezione a segretario di Zingaretti non ha fatto neanche la mossa di rimettere il mandato. La sorpresa maggiore è stata quando il suo vero capo è uscito dal Pd nel settembre del 2019 per costituire il gruppo di Italia Viva con ben 18 senatori. Ha preferito restare al suo comodo posto di capogruppo del Pd.

Marcucci si è fatto notare in questi mesi per il continuo gioco di sponda con i suoi vecchi sodali. Di recente ha fatto parlare di se in due occasioni. La prima quando ha chiesto a Conte cosa aspettasse a cambiare i ministri in chiaro affanno, la seconda quando ha apertamente dichiarato il suo dissenso verso l’ultimo Dcpm. Per entrambe le iniziative è stato duramente smentito dal partito e dalla sua delegazione al governo. Ha così pensato bene di ricordare come stanno le cose, e cioè che lui è il padrone del gruppo, potendo contare su almeno 28 senatori dei 35 che sono rimasti al Pd, tra cui 3 esponenti del governo. In fretta e furia il documento su cui erano state raccolte le firme è stato fatto sparire. Ma Marcucci soffre il suo isolamento, visto che quasi più nessuno del vertice del Nazareno gli rivolge la parola perché non credono ai suoi impegni di fedeltà.

L’altro protagonista della nostra storia è Berlusconi. Sicuramente insofferente per l’attivismo antieuropeo dei due giovani partner di opposizione, Berlusconi non perde occasione per distinguersi. Solo che non vuole tirare troppo la corda con il rischio di spezzarla. Così dopo averli costretti a votare lo scostamento di bilancio e chiarito che per lui i 37 miliardi del Mes disponibili per la sanità andrebbero spesi subito, non se l’è sentita di rompere con gli alleati anche sulla riforma del Fondo salva-Stati.

Ecco servita su un piatto d’argento al Pd l’occasione per ottenere il rimpasto, ridimensionare Conte, riprendersi il controllo del governo. Senza neanche correre il rischio di passare per quelli che lavorano sottobanco per un governo istituzionale con Forza Italia. Giuseppe Conte sottovaluta l’appuntamento del 9 dicembre quando le camere saranno chiamate a votare sul Mes. In quell’occasione o i 50 e passa parlamentari M5s che fanno capo ad Alessandro Di Battista scelgono la ritirata, oppure la sera stessa Conte dovrà salire al Quirinale e consegnare lo scettro di comando con cui ha familiarizzato troppo negli ultimi mesi. I vertici 5 Stelle e Conte si illudono di poter inserire in un documento da qualche parte il “rifiuto a priori” di utilizzare in ogni caso il Mes, sia per la sanità che per le eventuali e future crisi finanziarie. Il Pd non potrà certo cedere ora che una volta tanto ha il coltello dalla parte del manico.

Nell’intervista a Repubblica il premier ostenta sicurezza e rivela una certa sottovalutazione della situazione, frutto anche del grado di impopolarità maturato in queste ultime settimane in ambienti decisivi della nazione, che pure lo avevano guardato con simpatia nei mesi passati. Sicuramente non influiscono sui sondaggi, ma pesano moltissimo in un contesto delicato dove il governo si appresta ad assumere decisioni impegnative su come spendere le risorse in arrivo dall’Europa.

Se a Conte non piace il termine “rimpasto” può decidere lui come chiamarlo, ma farebbe bene a sbrigarsi. Alternative ad un governo Conte 3 al momento non esistono, ma è chiaro che vanno riscritti i patti tra i partner della maggioranza e soprattutto è arrivato il momento di ricondurre il premier al ruolo di responsabile di un governo di coalizione e non a quello del condottiero senza macchia e senza paura, in cui l’avvocato del popolo sembra invece trovarsi a proprio agio.