Conte dirà sì alla candidatura offertagli a Roma dal Pd nel seggio lasciato libero da Gualtieri. Ecco i calcoli di Enrico Letta
Come avevamo previsto, il Pd si è orientato ad offrire a Giuseppe Conte la candidatura nel collegio romano per la Camera lasciato vuoto da Gualtieri. Non un collegio qualsiasi. Roma 1 è il collegio del centro della città, che raccoglie i quartieri che vanno dall’Aventino fino alla parte più storica del Flaminio. Prima di Gualtieri in quel collegio era stato eletto deputato Paolo Gentiloni. Conte ringrazia ma sembra deciso a declinare l’invito.
Letta ha tuttavia svariati motivi per fare questa mossa ed insistere affinché Conte ci ripensi. Il primo è senz’altro quello di rendere più forte l’intesa con il Movimento in questa fase particolare della vicenda politica, dove bisogna eleggere insieme un presidente della Repubblica e poi affrontare una difficile campagna elettorale. E poi in questo modo si renderebbe più forte la leadership del suo principale alleato. Avere Conte in parlamento – dove anche lui, Letta, è entrato da poche settimane – significherebbe dirigere da vicino gruppi parlamentari particolarmente irrequieti.
Ma in fondo è anche la cosa più giusta da fare. Negli ultimi mesi l’alleanza ha dato buoni frutti, soprattutto per il Pd. Gli elettori 5 Stelle hanno votato lealmente il segretario del Pd a Siena. Insieme hanno eletto molto bene tanti sindaci Pd in città strategiche, come Napoli e Bologna. La fine delle ostilità ha reso possibile un lento ma irreversibile avvicinamento di due elettorati che fino a pochi anni fa si odiavano letteralmente. A Roma il Pd oggi ha il sindaco, ha eletto un parlamentare come Casu in una roccaforte 5 Stelle come Primavalle, ha consolidato la maggioranza in consiglio regionale intorno a Zingaretti. Appare tutto sommato ragionevole che a conclusione di questa fase il Pd restituisca qualcosa, con un atto destinato a rafforzare la fiducia reciproca.
La reazione di Calenda e di Renzi non può che render ancora di più Letta convinto della sua decisione. Ove ci fosse ancora un dubbio, le minacce raccolte in queste ore non possono che compattare l’alleanza e rendere emblematica una vicenda che in realtà potrebbe essere risolta come una questione di routine.
In ogni caso si tratta di considerare come l’ostilità verso l’intesa Pd-M5s sia ormai solo una bandiera che i leader del centro moderato si contendono come trofeo per ottenere la leadership di quella piccola area politica. Le ipotesi avanzate in queste ore sarebbero due: o una nuova candidatura di Calenda, che però rischia la sovraesposizione, oppure una candidatura di Italia viva in grado di ottenere la desistenza del centrodestra.
In entrambi i casi, Letta avrebbe gioco facile a dimostrare la strumentalità dell’opposizione alla sua linea. Nel primo caso, Calenda metterebbe a repentaglio la possibilità di contribuire alla costruzione di una forza di centro ma alleata con il centrosinistra, dall’altra la candidatura di un esponente di Italia viva, che raccattasse i voti della Meloni e della destra romana, renderebbe ancora più inviso quel partito ed evidente ad un elettorato moderato di centrosinistra la reale strategia di Renzi.
Quello che veramente incomincia a diventare pesante da sopportare è questo uso inappropriato del termine “riformista”. Con questa definizione per decenni veniva identificata una precisa componente della sinistra italiana, unitaria e dialogante, ma oggi essa si è trasformata nel suo contrario a causa di un uso fazioso da parte di chi non ha nessuna volontà di condizionare la sinistra, ma solo di soppiantarla e disintegrarla.
È quindi probabile che il 16 gennaio a Roma andrà in scena un’anteprima di quello che poi vedremo la mattina del 18, quando il Parlamento sarà riunito in seduta plenaria per eleggere il presidente della Repubblica. A meno di sorprese l’asse Pd-M5s a quel punto giocherà la carta Draghi, d’intesa con la Lega e FdI, aprendo una fase nuova dove rimarranno pochi spazi per i tatticismi e le soluzioni raffazzonate.
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