Renzi si era preparato da tempo al momento in cui i pm fiorentini avrebbero depositato la richiesta di rinvio a giudizio nei suoi confronti e di quasi tutti gli esponenti di punta di Italia viva. E non ha consentito che questa volta le notizie relative all’inchiesta sulla Fondazione Open uscissero senza la copertura mediatica della sua “reazione”. Da qui l’idea – abbastanza bislacca – di denunciare a sua volta e nello stesso giorno tutta la Procura della Repubblica di Firenze rivolgendosi a quella di Genova, competente ad indagare sui magistrati toscani.
Berlusconi – l’uomo politico che ha subito nella sua vita il più alto numero di inchieste – non era mai giunto a tanto. Verrebbe da dire che l’allievo ha superato il maestro. Come in una partiti a scacchi, a sua volta non si è fatta attendere la replica dell’Anm che ha stigmatizzato il comportamento del senatore, giudicandolo di grave “delegittimazione” per la magistratura. Dagli altri imputati non si è registrata invece alcuna dichiarazione. Segno che la difesa del gruppo – anche quella giudiziaria – è stata ancora una volta delegata interamente al grande capo.
Luca Lotti – l’unico degli indagati rimasto nel Pd – aveva fatto appena in tempo ad annunciare la fine della sua auto-sospensione (strumento disciplinare inesistente nello statuto del partito) per il coinvolgimento nel “caso Palamara” e nello “scandalo Consip”, che si è ritrovato sul collo una nuova richiesta di rinvio a giudizio per colpa della Fondazione Open, da cui aveva preso in qualche modo le distanze. Stessa sorte è toccata a Maria Elena Boschi, Marco Carrai e Alberto Bianchi. Quello che per anni è stato considerato il “giglio magico”, il gruppo di fedelissimi con cui Renzi ha condiviso per anni ogni decisione.
Colpisce comunque come – al di là dell’esito del procedimento giudiziario, il cui primo atto è previsto con l’udienza del 4 marzo – il gruppo di comando cementatosi intorno al giovane sindaco di Firenze svolgesse direttamente anche compiti secondari, seguisse ogni dettaglio della vita dell’organizzazione, e si occupasse anche della gestione dei soldi, senza delegare niente a nessuno. L’anomalia salta subito agli occhi. Nella lunga e tortuosa storia dei partiti italiani la figura del “tesoriere” ha sempre avuto un suo specifico ruolo – da Citaristi a Balzamo, da Coda Nunziante a Sposetti – ed essi hanno assolto il ruolo con abnegazione, consapevoli di poter diventare dei parafulmini nel caso che qualcosa non dovesse andare per il verso giusto.
Come sappiamo, la tesi dei magistrati è che la Fondazione Open raccoglieva soldi (oltre 3 milioni) per finanziare l’azione della corrente renziana del Pd, che proprio grazie anche a quelle risorse riuscì a scalare in pochi anni – dal 2012 al 2014 – le posizioni di vertice. La Fondazione agì poi anche durante gli anni dell’epopea renziana e della conquista di Palazzo Chigi. Proprio per questo oltre al finanziamento illecito i Pm contestano la corruzione e il traffico d’influenza, visto le diverse concomitanze tra alcune ricche donazioni finanziarie da parte di soggetti interessati alle decisioni governative e alcuni provvedimenti assunti in quegli anni. Da questo stesso filone di indagini nasce l’inchiesta su Grillo, i 5 Stelle e l’armatore Onorato.
La Fondazione chiude i battenti nel 2019, praticamente in concomitanza con la sconfitta elettorale e la decisione di Renzi di far nascere Italia viva. In quell’anno – a dire il vero – cambia anche la filosofia del capo, che a quel punto decide di mettersi in proprio e pensa soprattutto a far fruttare economicamente il suo ruolo di ex premier. L’indagine – ed è questo il motivo che ha mandato su tutte le furie Renzi – ha consentito di rendere di pubblico dominio i suoi conti correnti da cui si evincono le lucrose attività che il giovane capo di Italia viva ha svolto e svolge dal 2018 in ogni angolo del pianeta.
Avevamo lasciato l’ex premier cimentarsi con la ricca ma faticosa attività di conferenziere. Prezzo per una sua performance 40mila euro circa. Ora però scopriamo che non si è affatto limitato al ruolo di portatore del “verbo riformista” nel mondo. È accaduto spesso che egli, oltre ai discorsi su quante cose belle bisogna attendersi dal futuro, accettasse anche incarichi da lobbista e di entrare nei board di società straniere, con lo scopo di rappresentare gli interessi dei suoi ricchi clienti in Italia e nel mondo. È così le entrate sono diventate ben più consistenti e continuative.
Alla fine ha ricevuto compensi – almeno quelli emersi grazie all’indagine – per oltre un milione di euro dai suoi clienti arabi, compensi in qualità di amministratore di diverse società con sedi in Cina e in Russia. In quest’ultimo caso la situazione è – se possibile – ancora più imbarazzante e andrebbe valutata da diversi punti di vista. Sappiamo infatti che un imprenditore-lobbista-finanziere napoletano che corrisponde al nome di Vincenzo Trani ha costruito nel tempo un solido rapporto di fiducia con Putin ed il suo entourage. Svolgendo così per molte aziende italiane il ruolo di passepartout. Altro che il povero e impacciato Savoini, intercettato nella hall dell’Hotel Metropol di Mosca a trattare affari inesistenti.
Trani fonda qualche anno fa Delimobil, una società che ha lo scopo di diffondere la cultura della sharing economy in Russia. Inizialmente tra i consiglieri troviamo Enzo Amendola, amico di lunga data di Trani, e in quel momento storico privo di incarichi istituzionali. Appena nominato ministro, Amendola si dimette dal consiglio e Trani lo sostituisce con Renzi. Il compenso è di oltre 8mila euro al mese. La questione “etica” esplode poche settimane fa con l’aggravarsi della crisi ucraina. Fa un certo scandalo in Europa lo svolgimento, come se niente fosse e durante uno dei peggiori momenti delle relazioni Russia-Europa-Usa, di un incontro tra alcuni importanti imprenditori italiani e Putin, organizzata – inutile dirlo – proprio da Trani.
Che Renzi faccia soldi con arabi, cinesi e gli amici di Putin è effettivamente scandaloso. Ed è imbarazzante il silenzio degli altri esponenti della politica italiana. Che sia lecito o no appare onestamente una questione di lana caprina. Se è lecito – ed è tutto da vedere – è solo perché la legislazione nel nostro Paese è assai carente, basta vedere come al contrario siano alquanto severe le norme negli Stati Uniti e nel resto del mondo civilizzato su come deve regolarsi la politica di fronte ai conflitti d’interesse, soprattutto quelli con implicazioni internazionali, la tutela di informazioni riservate e degli interessi sovrani del proprio Paese.
O questo principio – a proposito – deve valere solo per la Belloni?
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