Due cose sono ormai chiarissime della “vicenda Scurati”: la prima che ai vertici della Rai c’è un gruppo di incompetenti che gestisce la principale azienda culturale del Paese senza esperienza e professionalità. La seconda, che Antonio Scurati è oggi lo scrittore più popolare d’Italia. Non è che non lo fosse, ma oggi ha toccato vette di “visibilità” che competono, più che ad uno scrittore, a qualche giovane influencer, attività che sappiamo preclusa alla popolazione adulta del Paese.
Sulla prima considerazione non ci sono particolari retroscena da svelare. Un qualche zelante collaboratore del direttore generale Rossi, credendo di fare cosa gradita al suo capo e alla líder maxima Giorgia, ha pensato bene di licenziare con una mail Scurati, non comprendendo le rovinose conseguenze del suo gesto. Rotoleranno teste? È molto probabile, ma a rischiare più di tutte di cadere è proprio quella dell’incolpevole Rossi, in procinto di diventare il nuovo amministratore delegato dell’azienda.
Anche sulla seconda valutazione c’è poco da dire. In poche ore il monologo di Scurati è stato letto, diffuso, declamato in ogni dove. In migliaia di sale del Paese, un pubblico commosso, in piedi e in religioso silenzio ha riservato al testo dell’autore della trilogia M dedicata a Mussolini lunghe ovazioni. Che dire? Un risultato davvero sconfortante per chi ha pensato che era giunto il momento di operare quel “riequilibrio culturale” di cui ha parlato la Meloni ad Atreu, necessario dopo un dominio ultra-decennale della cultura di sinistra nella tv pubblica.
Costoro, con in testa il ministro della Cultura Sangiuliano, hanno sottovalutato la portata delle loro azioni e la profondità delle radici che legano la cultura democratica all’opinione pubblica. Un errore di valutazione che ha giocato un brutto scherzo, dipeso essenzialmente dalla convinzione che gli intellettuali di sinistra altro non sono che un’élite isolata e ben pagata, lontana dalle esigenze del popolo. Stesso argomento usato da anni, ad esempio, da Donald Trump.
Il riferimento a quello che accade oltreoceano non è fuori luogo, perché quello che stiamo vivendo oggi in Italia è esattamente quello che ormai da qualche anno accade negli Stati Uniti, dopo la vittoria di Trump e il pericolo di una sua rielezione: la nascita di un partito autonomo del mondo dello spettacolo e della cultura. Stiamo parlando di un partito in modo improprio, ma sicuramente si tratta di una forza indipendente che prende parte alla discussione su aspetti rilevanti delle scelte di governo. Tante personalità diverse, ma profondamente unite su due questioni: i diritti delle persone conquistati in questi decenni (a cominciare dal diritto all’aborto) e le questioni ambientali. Su questi temi le loro posizioni sono intransigenti e sono profondamente legati al sentimento dell’opinione pubblica che proprio su diritti e tutela dell’ambiente è profondamente cambiato.
Anche in Italia ormai esiste un vero e proprio “partito” dello spettacolo e della cultura, e in questo momento è il principale partito di opposizione. Da Ghali a Roberto Vecchioni, da Elodie a Fiorella Mannoia, fino a Fazio, Saviano e Amadeus, è un continuo scendere in campo contro questo governo su temi ideali come la pace e l’antifascismo. Da questo punto di vista la sconclusionata campagna per il “riequilibrio culturale” promossa dal centrodestra è vicina al disastro. Basterebbe dare un occhiata ai catastrofici dati sugli ascolti e gli indici di gradimento della tv pubblica. Una crisi resa ancora più evidente dalla fuga di massa dalla Rai. La Caporetto si chiama Fiorello. Se il popolare conduttore abbandonerà, come sostengono molti, il gruppo dirigente Rai al suo destino per raggiungere i suoi amici alla Nove, la disfatta sarà totale.
Vi è un altro partito di opposizione che agisce con le stesse modalità del partito della cultura e anch’esso è in azione da mesi: è quello della magistratura. Rimane ora da vedere quanto sul piano del consenso costerà al centrodestra questa pesante contestazione di due pezzi decisivi della società. Sono fatti di pochi esponenti, ma conta la loro egemonia. Sicuramente nel breve periodo questa dura contestazione non sembra avvantaggiare i partiti di centrosinistra, così poco in sintonia con queste battaglie e in difficoltà a proporre una reale alternativa all’attuale maggioranza. Ma la storia insegna che nel medio-lungo periodo le forze del centrodestra non hanno alcuna possibilità di prevalere senza trovare un accordo o fare un passo indietro. La domanda quindi è: alla fine cederanno?
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