Cosa sarebbe successo se i maggiorenti del Pd non si fossero spaventati a mettere il suo nome nel simbolo? E se le altre candidate donne non si fossero opposte a farle fare la capolista in tutte le circoscrizioni? E se non si fosse vietato all’ultimo istante il faccia a faccia in tv con la Meloni? E se il padre di Ilaria Salis avesse accettato la sua proposta di far correre la figlia con il Pd in Sardegna? In politica i “se” non esistono, ma possiamo onestamente pensare che sul “piatto” delle elezioni europee il Pd ha lasciato almeno altri due punti percentuali. Si poteva così pareggiare il conto? Recuperare l’ultimo milione che ancora separa Fratelli d’Italia dal Pd? Non male per una pivella al suo primo vero scontro da quando è segretaria, da quando, cioè, ha ereditato un partito in coma profondo.
Il risultato complessivo del Pd è talmente abbagliante e inatteso che rischia di mettere in ombra altri aspetti importanti del voto dell’ultimo fine settimana. In primo luogo il fatto che il Pd diventa primo partito al Sud. Un risultato in controtendenza rispetto a tutta la storia repubblicana del Mezzogiorno. Almeno per quello che è il suo tradizionale comportamento elettorale. Perché il Sud ama in generale schierarsi con chi vince, preferisce dare credito agli uomini di governo che passano a “raccogliere” il frutto di promesse e prebende, ama dare sostegno all’uomo (in questo caso alla donna) forte del momento. È stato così con la Dc per decenni, ruolo passato in eredità a Berlusconi, mentre negli anni recenti vale ricordare l’innamoramento per Renzi, poi quello per Salvini.
Oggi il Sud non ha timore di schierarsi con le opposizioni, con il Pd. Se sommiamo i voti al partito di Elly Schlein a quelli raccolti dal M5s (ancora tanti) e da Avd (altra sorpresa), possiamo sostenere senza essere smentiti che al Sud esiste una maggioranza alternativa, anomala nel contesto nazionale, frutto di un malessere profondo, di una carica di frustrazione mista a ribellione, di paura in primo luogo per le conseguenze di quella che sarà l’autonomia differenziata.
Al voto europeo si è aggiunto un ottimo risultato ottenuto anche nelle elezioni amministrative. Interrompendo così un trend negativo culminato nel tonfo di qualche mese fa in Basilicata ed Abruzzo. Il voto in tanti comuni sembra segnare una vera e propria svolta, soprattutto in chiave di consolidamento dell’alleanza con il Movimento 5 Stelle e nella promozione di volti nuovi e di una nuova classe di amministratori locali.
Così, dopo l’elezione di Todde in Sardegna, il centrosinistra ha vinto al primo turno in importanti comuni come Bergamo e Cagliari e in tanti città medio-grandi da Pavia a Castellammare, da anni nelle mani del centrodestra. Significativi i casi di Bari e Firenze, dove si arriva al ballottaggio ma con un netto vantaggio sul secondo. Poi segnalo il caso di Perugia, dove c’è un testa a testa entusiasmante. Dopo 10 anni di dominio incontrastato del centrodestra nella Regione (vale la pena ricordare che l’Umbria è stata dal dopoguerra un baluardo inespugnabile della sinistra), il voto perugino contiene tante novità. A cominciare dalla candidatura di Vittoria Ferdinandi, 37 anni, cavaliere del lavoro, con una storia personale fatta di volontariato e pacifismo, così dirompente per il vecchio partito che ha spinto alle dimissioni il segretario della federazione che non la voleva.
Il terzo elemento di grandissima importanza è il voto giovanile, che per la prima volta si orienta verso il Pd. Merito di un programma incentrato sui temi del lavoro, a cominciare dal salario minimo, a quelli dei diritti, ma anche di una svolta nel linguaggio e nei comportamenti dell’attuale giovane gruppo dirigente. C’è soprattutto una sintonia tra i bisogni reali e il sentimento di una generazione su cui da anni si scaricano le conseguenze di un Paese in affanno, con una classe dirigente vecchia, sempre pronto a difendere qualche categoria di privilegiati, e mai preoccupata seriamente per quelle migliaia di ragazze e ragazzi costretti ogni anno a lasciare il paese.
Il punto ora è non illudersi che sia sufficiente proseguire sulla linea vincente, che basti non “cambiare passo”, continuare a conservare quel profilo giovane e semplice, rinunciare a dare vita ad una nuova proposta politica. Il voto carica di responsabilità Elly Schlein e la spinge inesorabilmente a proporsi in prima persona nel ruolo di federatrice del centrosinistra. In altre parole il voto rappresenta anche per la segretaria del Pd una novità: lei, Elly, non può più nascondersi. Nonostante tanti detrattori, oggi è apparso chiaro che è servita una figura come la sua per consolidare un percorso di crescita della fiducia di ampi settori dell’elettorato di sinistra, strappandoli alla disaffezione dal voto. Ma sarà anche in grado di lavorare per allargare l’area di interesse del Pd? Avrà la forza di riaccendere il rapporto con ceti più moderati? Convincerà i tanti disillusi dalla fine ingloriosa del terzo polo?
Vi è un punto dirimente che riguarda la coerenza con cui le due principali forze politiche italiane affronteranno nei prossimi mesi le scadenze in sede europea. L’elezione della presidente della Commissione europea e l’individuazione del commissario italiano rappresentano uno spartiacque. Da un lato c’è il Pd, primo tra i partiti socialisti in Europa e quindi con tanta voce in capitolo. Come userà questa forza la Schlein? Dall’altro lato c’è Fratelli d’Italia, che dovrà scegliere con chi stare e come trasformare il proprio voto in miliardi utili da spendere nella prossima legge di bilancio. Come gestirà Meloni l’alleato Lega, ormai su posizioni sempre più lontane dalla probabile maggioranza europea?
La sfida da vincere sarà essenzialmente su questo: Schlein dovrà rappresentare la leader più europea, l’interprete più coerente di quello sarà il nostro continente dopo gli anni della crisi, della pandemia e della guerra. Con una certezza: l’Italia di domani sarà più europeista di oggi, a dispetto di quello che pensano le rumorose minoranze che reclamano tutele impossibili. La nuova Europa dei diritti, della sfida ecologica e di nuove regole di mercato, sarà sicuramente il contesto in cui il nostro Paese dovrà immaginare il suo futuro.
I nostri giovani saranno meno interessati all’Erasmus, forse, ma molto di più chiederanno gli stessi diritti e le stesse opportunità dei coetanei europei con cui vorranno condividere la loro vita. Chiederanno con forza di riattivare quell’ascensore sociale ormai fermo da anni. Nella scuola, nella ricerca, nell’arte, nella pubblica amministrazione, nella finanza, nell’economia. La sfida politica non può essere più tattica, ma deve riguardare la strategia per i prossimi decenni, puntare dritti sul futuro. Quello per cui, come giustamente ha sostenuto Schlein in oltre 114 manifestazione in 25 giorni, ha ancora senso fare politica.
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