Molti si chiedono da quando il Pd abbia cominciato a dare prevalenza nella sua politica ai diritti civili rispetto ai conflitti sociali. Posta così la domanda, la risposta è semplice: dalla sua nascita. Nell’atto costitutivo del partito fondato da Veltroni nel 2007 – all’indomani della vittoria di Prodi alle politiche del 2006 e alla vigilia della disfatta del 2008, così simile a quella del 2022 – è descritto a chiare lettere il progetto di quello che poi è stato chiamato un “partito liquido”. Un partito non più organizzato sul territorio alla vecchia maniera (sezioni, iscritti, organizzazioni collaterali e case del popolo), sempre più leggero – all’epoca si indicò come esempio il partito democratico americano – e con un processo di selezione dei gruppi dirigenti stravolto dalla introduzione delle primarie.
A conti fatti, furono proprio le primarie a rappresentare l’innovazione più rilevante. L’introduzione di questo strumento di selezione – non previsto dalla nostra Costituzione e privo di regole certe – ha segnato profondamente la costituzione del nuovo partito. Gli organismi collegiali furono messi in soffitta, gruppi di volontari si trasformarono in comitati elettorali, le sezioni via via chiusero i battenti, anche a causa della decisione di non trasferire nel nuovo partito le proprietà immobiliari dei Ds e della Margherita. Ma le primarie hanno svolto una funzione assai più invasiva nella natura del Pd. La selezione dei segretari di ogni ordine e grado, dei sindaci e dei candidati, i membri degli organismi furono da quel momento selezionati direttamente da platee elettorali incerte, definite di volta in volta, aperte ad elenchi di elettori attivi non verificati, creando molta confusione e pochissima trasparenza.
La conseguenza principale è stata quella di ridurre ogni scelta politica ad una campagna elettorale. Non ha avuto più senso la costruzione dal basso attraverso il dibattito, interrompendo quel flusso di informazioni e conoscenze che il confronto in genere porta con sé. Le uniche cose che hanno contato in questi anni sono stati i pacchetti di tessere (in diversi casi è emerso che erano acquistati in blocco da qualche ricco sostenitore interessato) e i voti. Questo modello ha reso “contendibile” il Pd. Non dobbiamo guardare alle primarie solo quando, chiamati a scegliere il segretario nazionale, sono andati a votare più di due milioni di elettori di sinistra, ma dobbiamo vederne le conseguenze sul territorio quando piccole lotte di potere, concluse a colpi di voti di maggioranza, sono state causa di infinite scissioni e conflitti personali.
Come è evidente la macchina organizzativa de Pd è diventata nel corso del tempo più simile ad un comitato elettorale. Un’organizzazione chiusa per chiunque volesse dare una mano, avanzare un contributo di idee, una proposta, organizzare una iniziativa pubblica, occuparsi di un problema specifico. Lo stesso Letta ha dovuto ammettere in più occasioni di aver ereditato una organizzazione respingente, sospettosa verso il nuovo e indisponibile ad accogliere contributi e l’impegno volontario.
Per non parlare della costruzione del programma e l’individuazione degli obiettivi qualificanti del partito. Come si costruisce nel Pd la linea programmatica? Essa è spesso appannaggio del responsabile di turno che, conquistata quella posizione, sceglie e avanza le sue proposte. In generale la linea è quella espressa nelle amministrazioni locali, e in materia di politica urbanistica, assetto del territorio, trasporti, scuola, ecc.; non vi è alcuna differenza tra quello che fanno – o non fanno – le amministrazioni e quello che sostiene il Pd.
La costruzione dal basso del programma è una delle condizioni essenziali per costruire una relazione consolidata con i corpi intermedi e con la base sociale di riferimento. Vale nella fase di formulazione delle proposte, ma soprattutto quando bisogna agire a difesa di singoli interessi di categoria o per la soluzione di problemi che insorgono. È li che si rafforza la cura e la relazione con i sindacati, i comitati di base, ma anche con le imprese che più innovano e che dialogano con il territorio. Questo fondamentale lavoro di base è stato completamente annullato, lasciato alla iniziativa dei singoli, quasi sempre eletti nelle istituzioni, che hanno agito come un by-pass che ha escluso il partito.
Non vi è dubbio che durante la fase acuta della pandemia l’attenzione verso i territori ha ritrovato una dimensione nuova, la cura delle persone “marginali” è stato uno dei pochi benefici della diffusione del virus. Una delle più grandi conquiste di questi mesi è stata quella di ragionare – ad esempio quando si è calcolato il numero dei vaccinati – sul 100% della popolazione. Una rivoluzione per un ceto politico che si rivolge di norma al 60% degli elettori attivi.
Ma la difficoltà a parlare in questi anni con i ceti più poveri è legata soprattutto ad una idea di società, ad un’ottimistica ed entusiastica adesione alla globalizzazione, al ruolo assunto dall’innovazione tecnologica, alla modernizzazione in generale. Il “positivismo” che ha ormai pervaso la cultura politica dei dirigenti del Pd li ha spinti a credere nello sviluppo e nella crescita come un dato incontrovertibile.
Il Pd nasce come partito fedele all’Europa. In questo confluiscono due convinzioni diffuse nell’establishment del nostro Paese: da un lato l’idea che l’Europa deve sopperire all’assenza di rigore nella gestione delle risorse pubbliche, dall’altra che deve rappresentare l’argine in grado di fermare ogni minaccia proveniente dalle tante e diffuse spinte sovraniste.
Negli anni successivi alla crisi scoppiata nel 2008 tali convinzioni hanno trovato conferme e hanno spinto, in un periodo di ingovernabilità, il Pd ad assumere il ruolo di partito stabilizzatore. Al di là del consenso raccolto, e a prescindere da chi lo guidasse, il Pd ha conservato per oltre 10 anni una funzione centrale di garanzia verso l’Europa e nel contempo verso le classi dirigenti del Paese. Sinceramente in questo decennio il Pd non poteva svolgere troppe parti in commedia, e il ruolo di partito di governo lo ha allontanato definitivamente dalle classi lavoratrici e dai settori più colpiti dalla crisi. Non solo la Cgil ma molto altre organizzazioni di lavoratori si sono allontanate dal Pd, lasciandolo nel ruolo sempre più scomodo di “chi è seduto dall’altra parte del tavolo”.
L’impossibilità di svolgere questo ruolo sociale ha spinto il Pd a trovare le ragioni della propria appartenenza alla sinistra nelle battaglie sui diritti. È sembrato naturale (legittimo culturalmente) sostituire il vecchio radicamento sociale con un sistema di valori generici di sinistra in cui condividere principi e obiettivi classici della cultura liberale. Dal riconoscimento del ruolo delle donne alle dure battaglie sull’immigrazione, ai diritti delle minoranze di genere, identificate con le battaglie del movimento Lgbt, fino alla difesa di diritti conquistati sul finire del secolo scorso attraverso battaglie radicali come l’aborto, il divorzio, l’eutanasia, che diventano le bandiere identitarie del partito.
La somma delle due questioni – come avviene sovrapponendo due insiemi – ha delimitato una base sociale precisa in cui il Pd si è ormai profondamente radicato: la borghesia delle grandi città, la grande area dei pensionati, gli operatori del mondo della produzione culturale e delle professioni, ampi settori della scuola e dell’università, la vasta area dei manager pubblici e dei dirigenti e dipendenti della pubblica amministrazione, a cominciare dalla sanità. Insomma, la base sociale si è andata restringendo e radicalizzando, spingendo contemporaneamente il Pd su posizioni sempre più nette sul piano dei principi e dei valori, mentre sul piano politico se ne apprezzava la posizione di governo e la ricaduta positiva che questo ruolo ha proprio per queste categorie.
Ecco spiegato il motivo di una sempre maggiore difficoltà a spingere il Pd ad occuparsi dei settori più poveri e più colpiti dalle diseguaglianze sociali. È una difficoltà oggettiva: la classe dirigente non è in grado di compiere questo sforzo né si può immaginare che sia riconosciuta come interlocutrice da questa parte della società. L’operazione può evidentemente avere successo solo se un nuovo gruppo dirigente decide di impegnarsi in profondità e con discontinuità rispetto al passato. Non è escluso che un periodo di opposizione possa giovare a questa scelta. Ma non è detto che questa sia la scelta del Pd e che questa scelta porterà più voti nel breve periodo.
Rimane da chiarire un ultimo aspetto: perché il Pd non ha mai tentato in questi anni la strada laburista, nel senso di collegare con maggiore convinzione le proprie sorti alle altre forze della socialdemocrazia europea? A parte il caso francese, dove la crisi del partito socialista ha aperto le porte a nuovi partiti con Macron e con Mélenchon, le cose stanno andando diversamente in Germania e in Spagna, e per certi aspetti anche in Gran Bretagna. In generale ritorna dunque attuale una domanda: fallito il tentativo veltroniano del partito maggioritario, non è il caso di tornare al progetto iniziale di una forza schierata con la sinistra democratica e socialista europea? Non è il caso di rinunciare al disegno di creare un partito senza radici e vittima della sua presunta originalità?
(2 – continua)
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