Enrico Letta procede sempre più convinto delle sue scelte e non teme le contestazioni. Non l’hanno spaventato gli insulti raccolti ieri durante il corteo per il 25 aprile a Milano a causa della sua posizione filo-americana (“servo della Nato” l’epiteto più leggero ricevuto dalle frange estremiste) e non ha temuto le reazioni della platea durante il suo intervento all’assemblea congressuale di Articolo Uno.
Il congresso del piccolo partito nato dalla scissione del 2018, maturata in seno al Pd a guida renziana, si è concluso senza particolari novità rispetto a quanto annunciato alla vigilia. Riconfermato segretario con oltre il 90% dei consensi Roberto Speranza, sancita la disponibilità a ricucire con il Pd lo “strappo” appena possibile, ampio spazio alle questioni sociali, come lavoro e sanità. Scelte rafforzate dagli interventi dei big, a conferma del fatto che tutti in quel partito sono determinati a prendersi la loro rivincita e in un modo o nell’altro rientrare in gioco. Il tutto si è svolto in una cornice rispettosa delle tradizione, e non sono mancate le delegazioni internazionali e i cori e gli inni che scaldano le platee di sinistra da oltre un secolo.
Diverso il modo con cui i militanti ex comunisti hanno accolto Giuseppe Conte. Il presidente del Movimento 5 Stelle e il piccolo partito hanno in comune un odio profondo per Renzi, ma la loro sintonia affonda le radici nell’esperienza di governo condotta insieme nell’esecutivo Conte 2 e nella difficile gestione della crisi che portò poi al governo Draghi. Fu in quei mesi che l’allora presidente del Consiglio si conquistò la fiducia degli storici leader del partito, come Bersani e D’Alema. E nessuno può negare che l’intesa tra di essi si sia consolidata anche durante i mesi della difficile convivenza con l’attuale governo, l’opposizione malcelata alla possibile elezione a presidente della Repubblica di Draghi e la comune insofferenza verso il sostegno militare – con l’invio di armi e la conseguente decisione di aumentare la spesa in armamenti – alla resistenza ucraina.
Letta ha quindi davvero ottenuto il massimo. Proprio nel momento in cui sono oggettivamente più distanti le sue posizioni rispetto a quanto va sostenendo l’ala sinistra dello schieramento, il segretario del Pd può serenamente considerare concluso quel difficile percorso di ricostruzione dell’alleanza con tutte quelle forze che nel 2018 avevano apertamente combattuto il Pd e contribuito in modo decisivo alla sua pesante sconfitta.
Questo risultato, cioè il consolidamento dell’alleanza di centrosinistra pur mantenendo posizioni molto chiare sul fronte internazionale, mette il segretario nella condizione ideale per lanciare ora la sua personale conquista del “centro” dello schieramento politico. In effetti perché perdere tempo ad inseguire quelli che si autocandidano a rappresentarlo quando si può legittimamente pensare di fare da soli? In altre parole, Letta si sta predisponendo all’ultima fase di costruzione di quel “campo largo” di cui parla dal suo insediamento, indispensabile per sperare di vincere le prossime elezioni, proponendosi direttamente – lui e il suo Pd – a rappresentare quell’elettorato moderato e liberale che, per quanto limitato nei numeri, rappresenta la componente essenziale per raggiungere il successo.
Letta ha il profilo giusto per condurre questa battaglia. Intanto la sua provenienza dall’area degli ex Dc rimane una garanzia per molti. Oggi le sue ampie relazioni internazionali e il suo schierarsi senza tentennamenti con Biden e l’amministrazione americana lo rendo un leader credibile in Italia e in Europa, visti gli imbarazzanti scheletri negli armadi di tanti esponenti europei, tedeschi in testa. Insomma, è il segretario del Pd l’unico in grado di competere con il prestigio di Mario Draghi e poter legittimamente aspirare a sostituirlo.
Rimane il nodo della legge elettorale, che a parole tutti vorrebbero provare a cambiare in senso proporzionale. Letta si dichiara disponibile – lo ha fatto anche dal pulpito del congresso di Articolo Uno – ma sa perfettamente che non esiste in questo parlamento una maggioranza in grado di farlo. Intanto perché il centrodestra dovrebbe totalmente naufragare sugli scogli del conflitto Meloni-Salvini fino al punto di disintegrarsi. Ma anche nel centrosinistra molti – e in particolare i capi dei 5 Stelle – considerano l’attuale legge (e il Pd) un salvagente a cui aggrapparsi, l’unico in grado di assicurare seggi e quel diritto di “veto” sugli avversari di sempre.
Tutto ciò è ampiamente agevolato dal comportamento scellerato dei piccoli leader del centro moderato e riformista. Calenda e i renziani non si sopportano più e giungono spesso ad insultarsi pubblicamente. A destra i vari tentativi di far nascere qualcosa di nuovo (ultimo in ordine di tempo il raggruppamento fondato da Toti e Brugnaro) non resistono che poche settimane e l’ascesa della Meloni condiziona ogni possibilità futura, al punto che ci sono “centristi” che pensano di dover allearsi con Fratelli d’Italia.
La guerra in Ucraina – come i due anni di Covid – stanno spingendo il governo Draghi verso la scadenza naturale della legislatura. Pura inerzia, visto che il governo non dispone più di quella spinta iniziale frutto del consenso popolare e di una notevole capacità di decisione. Gli schieramenti tradizionali sono in campo e prendono posizione. Poco spazio rimane per chi vuole dare vita a qualcosa di nuovo. Resta il fatto che il voto dei cittadini potrà poi confermare o smentire molte di queste tesi, o semplicemente non concedere a nessuno la vittoria, che poi vorrebbe dire continuare ancora per qualche anno con il premier attuale.
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