Dopo Conte è arrivato Letta. Illustrando un programma che, a parte gli accenni allo jus soli ed al voto ai sedicenni ed alla necessità di lavorare ad una coalizione, non esibisce molto di nuovo. Lo ha illustrato, però, con un eloquio e una comunicatività che forse Zingaretti non aveva e che certo Draghi può solo sognarsi.



Tanto tuttavia è bastato perché gli opinionisti si mettessero all’opera.

All’opera si è messo anche Massimo Franco nel breve dibattito avuto con Bersani nella trasmissione della Gruber di qualche sera addietro: elargendo sospetti sul rapporto in cui Letta intende porsi con il M5s e con Conte e disseminandone il percorso di ostacoli e paletti. Male ha fatto Letta a concedere spazio al M5s, il Pd deve proporsi di ricomprendere tutto lo spazio “a sinistra del centro” e per far questo deve da subito ribattere colpo su colpo alle politiche che Conte verrà proponendo: questo, in sostanza, il rimbrotto ed il comandamento.



Rimbrotto e comandamento esprimono in efficace e fedele sintesi la linea che l’establishment persegue dai tempi della nascita del Pd e, con queste determinazioni, dalla defenestrazione di Bersani: scongiurare l’avvicinamento ai luoghi che contano di ogni formazione politica priva di consuetudine con quel che questi luoghi frequenta e spingere il Pd verso un’alleanza organica con una destra addomesticata, Forza Italia e, possibilmente, una Lega a guida Giorgetti.

Questo risalente disegno è, ovviamente, del tutto legittimo. Meno legittimo è, invece, che per esso da anni alacremente lavorino i mass-media più influenti, almeno quando lo assumano come una sorta di a-priori delle loro analisi della politica, e che in base ad esso si pretenda di sentenziare su quel che il Pd debba essere o che gli sia più conveniente.



Questo disegno sembrava ben avviato per mezzo dell’aduso Renzi con l’insediamento dell’agognato Draghi. Ed il lavoro ai fianchi sull’indifeso Zingaretti e le sue dimissioni è sembrato lo completassero.

A dire il vero, il discorso di Letta non permette di escludere del tutto una qualche sensibilità verso simili prospettive né di garantirne con sicurezza l’assoluta estraneità: da un lato, vi si parla del M5s e di Conte ma nelle consultazioni per una coalizione si includono la Bonino, Calenda e Renzi, che – va detto chiaro – tirano a destra, e la primazia del Pd può essere tanto la giusta e sacrosanta aspirazione di un partito, quanto il martello con cui demolire l’alleanza con il M5s e Leu che fin qui è stata coltivata.

Cosa accadrà non è ancora scritto. Ma Letta è intelligente, è colto e di politica ne capisce. Per questo qualche considerazione può non essere inutile.

La prima considerazione è che quando si parla di identità del Pd erroneamente si ragiona pensando alla somma di quel che restava di Dc e Pci. Ma non è così: essa ha a che fare piuttosto con un’anima genuinamente popolare, coraggiosamente riformista e sinceramente democratica, che, in misure e modi diversi, attraversava tradizioni importanti di quei partiti, grossomodo quelle che si spesero per il welfare italiano. E ancor di più si deve pensare alle fasce sociali di cui il Pd, o meglio quell’anima, al suo incipit congiunto ha detto di assumere la rappresentanza: quelle che si situano ai margini del potere e dell’opulenza e che chiedono che dal loro punto di vista si prenda a leggere il presente e ad immaginare il futuro.

Il problema dell’identità del Pd non viene, allora, dall’obsolescenza di quest’anima o dall’assottigliamento di queste fasce, ma dalla divaricazione tra quest’anima ed il suo “popolo” e una parte (larga) del ceto politico che dovrebbe rappresentarli e che, invece, coltiva un’altra anima e guarda ad altri ceti, contigui al potere e all’opulenza. Questo il “popolo” genuino del Pd lo ha capito e da questo ha origine la travolgente crisi elettorale di questo partito. La questione è, dunque, se il Pd ha da essere il partito di quest’anima e di questo “popolo” o deve convertirsi definitivamente nel partito di quest’altra parte del suo ceto politico e di quel che essa aspira a rappresentare.

La seconda considerazione è che da questa identità dipendono strettamente non solo la collocazione del Pd nello scacchiere politico italiano ma anche le sue chances elettorali e il suo peso politico. È un’illusione non tanto pia quella di chi persegue il disegno che il Pd, spostando il suo asse (o meglio lasciandolo dove Renzi lo aveva messo e dal quale Zingaretti voleva allontanarlo), si porti dietro il suo seguito elettorale. Le elezioni del 2018 hanno dimostrato che non è affatto così, anzi da quel 17% andrebbero ora tolti il 4% circa che dal Pd è poi uscito (a destra) per andare con Calenda e Renzi e qualche altro punto che di fronte all’ennesima disillusione lo abbandonerebbe (per andare a sinistra o da qualche altra parte o per l’astensione). Ma un Pd così collocato e così ridimensionato non avrebbe altra chance che quella di allearsi con Forza Italia (che da questo manovra trarrebbe un senso che ha in gran parte perduto: e Berlusconi, che è intelligente, lo ha capito) e con la Lega, e in questa alleanza dovrebbe rassegnarsi – piaccia o no – ad una posizione alla fine subalterna. Mentre un ripensamento post-elettorale lo vedrebbe disarmato verso un M5s che (se la sua dirigenza non sarà fessa) avrà approfittato dell’inevitabile depauperamento elettorale piddino (insieme a Leu, se Bersani sarà riuscito – il che è un po’ difficile – a unificare i cespugli autolesionisticamente narcisistici della sinistra).

Chi prova a ragionare un po’ capisce che a questo, alla fine, conduce il disegno di cui prima si è detto, non fosse altro perché le condizioni della società sono peggiori di quelle del 2018 e ancor peggiori saranno nel 2023. Ma di questo gli autori di quel disegno ed i suoi mentori non si curano, perché verso il Pd ed il suo “popolo” non nutrono alcun vero interesse e i consigli che elargiscono servono solo alla prospettiva di governo del Paese che coltivano.

Un’ultima considerazione sul rapporto del Pd con il governo di Draghi, che sembra preoccupare quanti quest’opinione sostengono. Anche a questo riguardo le parole di Letta non son tali da fugare ogni dubbio. Ma il dubbio per chi tiene al Pd non ci può essere: al governo Draghi è dovuta lealtà perché questo è richiesto dal bene del Paese, ma il suo non può mai essere il governo del Pd, né l’ammucchiata che lo ha votato può mai prefigurare qualcosa che possa avere a che fare con le sue alleanze future. Sempre che non prevalga il disegno caro all’establishment e a chi lo diffonde.

Però Letta è intelligente, è colto e capisce di politica. E soprattutto dice di sé che “Ho imparato”.

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