La prospettiva di un nuovo partito della sinistra italiana passa per la ricomposizione delle due anime storiche che la compongono, quella movimentista e quella riformista. Per molti anni questa divisione ha riguardato i partiti comunisti e socialisti, non solo in Italia ma anche in Europa e in molti altri continenti. Ancora oggi quella divisione condiziona lo sviluppo di una grande forza socialista e democratica unitaria. Ma soprattutto in Italia è all’origine di una vera e propria diaspora delle forze di ispirazione socialista che, pur di non accettare questa ricomposizione, hanno preferito trovare collocazione nello schieramento opposto, come dimostra la storia di partiti come Forza Italia, nato nel 1994 in seguito allo sconvolgimento di Tangentopoli.
Se sono chiare le ragioni che mandarono in pezzi il movimento socialista nel biennio 1919-21, meno si è parlato e dibattuto delle numerose occasioni che pure ci sono state di ricomporre l’unità della sinistra, soprattutto una volta che erano venute meno le ragioni del dissidio originario. Come abbiamo visto, la frattura maturò a cavallo del primo conflitto mondiale, principalmente sui temi della guerra, e sulla questione se fosse giusto o meno schierare il movimento operaio internazionale in un conflitto che riguardava i padroni e gli Stati nazionali e che, per alcuni, poteva solo servire ad accelerare la loro crisi e la presa del potere da parte delle classi subalterne. Cosa che del resto avvenne puntualmente in Russia.
Il conflitto tra le correnti socialiste portò a sottovalutare il pericolo rappresentato da un nascente nuovo nazionalismo che, sostenuto dalle classi dominanti impaurite dal pericolo rivoluzionario, si rafforzò soprattutto in quei Paesi dove la guerra era stata perduta o aveva lasciato segni profondi nel tessuto economico e sociale. Il fascismo ebbe gioco facile anche per l’incapacità delle forze di sinistra di fare fronte comune. Solo dopo, nella lotta antifascista e nella Seconda guerra mondiale, la sinistra riuscì a condurre una battaglia unitaria mettendo da parte le divisioni interne. Anche se spesso esse si ripresentarono nella loro forma più acuta, come fu ad esempio nel drammatico epilogo della guerra civile spagnola.
La prima occasione di discussione per la creazione di un nuovo partito unitario della sinistra fu offerta da Giorgio Amendola. Il leader comunista, figlio di un martire antifascista, mise sulla questione tutto il peso della sua autorità politica e morale dando vita ad un lungo confronto con Norberto Bobbio, intellettuale di ispirazione socialista, raccolto in un carteggio pubblicato nel 1964 da Rinascita. L’autorità degli interlocutori era tale che fu necessario aprire un dibattito ufficiale nel partito, che però si rivelò senza esclusioni di colpi. La discussione impegnò il gruppo dirigente del PCI dal novembre 1964 al giugno 1965 e si concluse con un voto del Comitato centrale. La riunione fu aperta da una relazione – assai possibilista – di Paolo Bufalini e lo stesso Amendola intervenne più volte a difesa delle sue tesi. Sotto l’impulso di Luigi Longo – allora segretario – si era dato mandato ad una commissione, composta oltre che dagli stessi Amendola e Longo anche da Berlinguer, Ingrao, Bufalini, Rossanda, Secchia, Li Causi, Gerratana, di redigere un documento conclusivo. Ne nacque una corposa piattaforma politica e programmatica che – almeno da parte comunista – poneva le basi per dare vita all’unificazione socialista e ad una nuova formazione politica.
L’iniziativa ovviamente non ebbe il seguito che sperava Amendola. Troppe erano state nella formulazione del documento le concessioni alla sinistra interna e troppo poco il PCI si era mosso dal suo giudizio critico verso le socialdemocrazie europee e da una sostanziale ostilità al processo di unificazione europea. E poi come non ricordare che eravamo negli anni dei primi governi di centrosinistra e la diversa collocazione politica dei due principali partiti della sinistra rendeva difficile se non impossibile che lo sforzo di Amendola non si concludesse con un fallimento.
Il tema fu ripreso nel luglio del 1985 in numerosi articoli pubblicati da Rinascita da un gruppo di intellettuali di sinistra e socialisti indipendenti, che si rivolsero direttamente al PCI per chiedere l’apertura di un dibattito franco sull’attualità dell’unificazione delle forze di ispirazione socialista. Lettere che trovarono poi posto in un piccolo libro (Lettere da vicino, Einaudi, 1986). Personalità del calibro di Balbo, Carniti, Cavazzuti, Foa, Ginzburg, Giolitti, Salvati, Veca e molti altri sollevarono apertamente il tema, proprio ora che con Bettino Craxi si era giunti nel nostro Paese ad avere un primo governo a guida socialista, se non era giunto il momento di rimuovere le vecchie divisioni e superare questa contrapposizione deleteria. Di lì a poco ci fu un’interessante risposta di intellettuali e dirigenti sindacali promossa dagli stessi Vittorio Foa e Antonio Giolitti, questa volta rivolta al gruppo dirigente socialista. I testi raccolti nel volumetto La Questione Socialista (Einaudi, 1986) divennero la base di un fondamentale dibattito sulla natura e sul ruolo del Partito Socialista dopo l’esperienza del governo Craxi.
Cito per tutti l’intervento di Norberto Bobbio, intitolato esplicitamente L’abito fa il monaco. Bobbio interviene senza mezzi termini sul tema del conflitto nella sinistra: “Insisto sulle divisioni della sinistra – dice il filosofo torinese – perché non sono un evento caratteristico del sistema politico italiano e tanto meno degli ultimi quarant’anni. La storia quasi centenaria del socialismo è una storia di violente contese e insuperabili divisioni. Massimalismo e riformismo. Riformismo e sindacalismo rivoluzionario. Catastrofismo e gradualismo. Riforme o rivoluzione? Non vale la pena elencare tutte le rotture che hanno diviso ed indebolito il movimento operaio”. Per poi concludere così: “Eppure abbiamo una sola cosa seria da fare: metterci una pietra sopra!”.
Come andarono invece le cose lo sappiamo. La rottura politica maturata intorno al 1983 tra Berlinguer e Craxi su temi rilevanti come la politica estera e i famosi 4 punti di scala mobile congelati, aveva ormai scavato un solco profondo, rendendo ogni sforzo inutile. E ben presto ritornarono dominanti – alle soglie del 2000 – quegli argomenti che acuirono invece di ridurre le divisioni e le distanze, facendo, come prevedeva Bobbio, “ridere i posteri alle nostre spalle”.
Per questo quando dopo il crollo del muro di Berlino il PCI di Occhetto avviò il processo di trasformazione che portò a superare il vecchio nome e il vecchio partito non ci furono grandi margini di manovra per le forze intenzionate ad utilizzare questa occasione per rimettere al centro del dibattito il tema di una riunificazione socialista. Fu soprattutto Emanuele Macaluso, in un suo articolo del novembre del 1990 apparso sulla rivista Il Ponte, a denunciare i limiti del processo di costruzione del PDS. Egli scrive a proposito del nascente nuovo partito: “le incertezze a tale riguardo sono state alimentate da formulazioni che appaiono un passo indietro rispetto a due obiettivi nevralgici della svolta: dar vita a una nuova forza riformista e socialista, avviare un processo unitario a sinistra”.
Quando nel 1992 si aprì la stagione di “Mani Pulite” ormai era già diventato troppo tardi. La ghiotta occasione per il gruppo dirigente del PDS di annullare la componente socialista, fagocitandola e inglobandola senza discussione, sortì l’effetto contrario. L’area socialista esplose di fronte all’azione della magistratura e in molti militanti socialisti si consolidò il sospetto che i cugini ex–comunisti avessero in qualche modo agito nell’ombra per distruggerli. Fu questa la motivazione principale che spinse i socialisti italiani per la prima volta nella loro storia a trovare rifugio nel centrodestra.
L’operazione ovviamente avvenne grazie all’iniziativa di Silvio Berlusconi. Considerato non solo amico personale di Craxi, ma leader indiscusso di un mondo dell’impresa simbolo di un processo di modernizzazione del Paese e baluardo nei confronti della marea giustizialista. Sappiamo oggi che l’operazione riuscì pienamente, in pochi mesi, mentre Occhetto si dilettava con la “gioiosa macchina da guerra”. Di lì a poco sarà proprio lui a dover lasciare il posto di segretario ad una generazione più giovane, che si guardò bene dall’affrontare la diaspora della componente socialista. Al contrario le forze socialiste, ormai uscite dal perimetro del centrosinistra, hanno rappresentato un pezzo importante dei governi di centrodestra guidati Berlusconi.
Inutile ricordare qui gli autorevoli esponenti socialisti che hanno rappresentato per oltre 20 anni la parte più qualificata del ceto politico di governo espresso dal centrodestra. Figure che hanno cercato di mantenere un filo di dialogo con il PD anche nei momenti più difficili e di scontro aperto. In più di un’occasione poi è stato lo stesso Berlusconi a candidare figure socialiste (come ad esempio Giuliano Amato alla presidenza della Repubblica) anche se rimasti nel centrosinistra, per ruoli istituzionali unitari.
Eppure la presenza di Berlusconi ha congelato per oltre vent’anni la questione, alimentando una situazione insostenibile dal punto di vista politico e culturale. L’area socialista in Forza Italia è finita progressivamente in una posizione di sofferenza, soprattutto per la forzata collaborazione con forze anti-unitarie e chiaramente ostili allo sviluppo del Mezzogiorno (come la Lega di Bossi) o, cosa ancora più grave, con forze di ispirazione fascista (come Fratelli di Italia).
Su temi rilevanti come la politica internazionale e il ruolo dell’Europa, i diritti civili e le libertà individuali, soprattutto delle donne, l’idea libertaria e la visione economica antistatalista, queste forze sono state progressivamente spinte ai margini e vivono una condizione di grande sofferenza. Per questo penso che sia arrivato il momento di una “nuova offerta” di pace, di ricomposizione dell’unità della sinistra democratica.
Dimostrando nei fatti – con uno sforzo culturale e programmatico in grado di rileggere autocriticamente questi ultimi decenni – di essere pronti ad accogliere tutti i socialisti italiani. Mettere fine alla diaspora. Invitando ad unirsi, rivolgendosi sia a quelli di una generazione passata, che ancora ricordano, sia a quelli più giovani, che vorrebbero fidarsi di un nuovo corso reale. E fare finalmente quello che chiedeva Bobbio, e cioè “metterci una pietra sopra”.
(2 – continua)
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