Di D’Alema abbiamo cominciato a non fidarci più da quando mollò Prodi al suo destino e ne prese subito dopo il posto di presidente del Consiglio. Da quel momento – eravamo nel 1998 – qualsiasi cosa egli abbia provato a dire o fare ha generato sospetti, ogni suo atto è stato interpretato come il primo passo per raggiungere l’esatto contrario di quanto appena dichiarato. Per un politico non può esserci nulla di peggio, ovviamente, perché la mancanza di credibilità vanifica il rapporto di fiducia con le persone, e non a caso la sua carriera politica ha da quel momento decisamente imboccato la strada del tramonto.
Eppure in tutti questi lunghi anni di declino – forse più di venti – D’Alema ha continuato a svolgere un ruolo abbastanza importante di “guastatore” delle strategie altrui, soprattutto a sinistra. Ne è talmente consapevole egli stesso che in un passaggio delle sue dichiarazioni rilasciate a Repubblica ammette che “se qualcuno dice qualcosa di buonsenso passa subito per complottista”.
Dopo questa ampia premessa non è facile dare un senso alla sua intervista di ieri. Certo, deve aver pesato la voglia di far sapere che è in partenza per il Sudamerica e che raggiungerà presto il suo amico Lula per complimentarsi di persona per il successo. Sicuramente ci teneva a sottolineare che l’ultima volta che è stato a Mosca (come recita il titolo assai evocativo del suo ultimo libro) era in compagnia di Berlinguer e che da allora non ci ha messo più piede. Ma sicuramente l’occasione era troppo ghiotta per non mettere lo “zampino” nella caotica discussione post-voto appena iniziata nel Pd.
D’Alema ha fatto subito riferimento al suo repertorio di successo, tagliente e scontato al tempo stesso. Da un lato, l’ex Premier ha insistito sulla riproposizione di un vecchio adagio – “le elezioni si vincono se costruisci alleanze” – per sottolineare che la destra ha vinto per manifesta incapacità del centrosinistra di mettere insieme i cocci di uno schieramento dilaniata da conflitti personali. Dall’altro, è arrivato abbastanza scontato il riconoscimento per Giuseppe Conte. Per D’Alema l’avvocato del popolo ha avuto il merito di aver combattuto e vinto la battaglia per conquistare la leadership progressista, a fronte di un Pd incerto e subalterno al governo Draghi. Due messaggi che da soli fanno una politica e che molto probabilmente peseranno anche sul congresso del Pd.
D’Alema non sembra interessato a partecipare da protagonista alla battaglia congressuale. Sono i dirigenti di Articolo Uno che dovranno cavarsela da soli e trovare un ruolo in quello che sarà il Pd dopo il congresso di primavera. L’ex Premier sembra più interessato a sottolineare – tra il riaffiorare di tanti ricordi – di “aver avuto ragione” quando ha considerato velleitario il progetto veltroniano del “partito unico del centrosinistra”, che lui era per mantenere quel trattino tra sinistra e centro, e che questo era l’unico modo affinché ciascuno continuasse a fare il suo mestiere.
D’Alema ovviamente ricorda solo quello che gli piace ricordare, e ha qualche difficoltà ad ammettere che in passato furono molto meno lungimiranti le sue posizioni. Proprio il giovane D’Alema berligueriano – in effetti era uno dei suoi pupilli – era uno dei più fedeli sostenitori della terza via eurocomunista, uno dei più attivi nell’usare l’apparato per schiacciare la componente interna socialdemocratica, troppo incline all’accordo con il partito socialista. Fu uno dei più energici oppositori a che la svolta dell’89 prendesse l’unica strada possibile, e cioè quella del ricongiungimento con la grande tradizione socialdemocratica europea. Troppo comodo oggi fare la parte di chi aveva previsto tutto. Le cose sono andate spesso diversamente da come si ricordano. Un vizio assai diffuso tra una certa generazione, molto abile nel cercare di far credere che la storia – in un modo o nell’altro – ha dato ragione a loro.
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