La liturgia dell’analisi del voto – soprattutto dopo una sconfitta pesante come quella subita il 25 settembre – contraddistingue la sinistra sin dai lontani tempi della sua nascita. Era un esercizio intellettuale per chi intendeva avere nel partito un ruolo da “dirigente”.
L’importanza della discussione trasformava il dibattito nell’occasione per fare un bilancio sul passato senza rinunciare, allo stesso tempo, a cogliere le nuove tendenze. Per oltre un secolo l’immancabile riunione degli organismi dirigenti con all’ordine del giorno “analisi del voto” e stato un appuntamento atteso, a cui ci si preparava dopo aver studiato dati e letto i commenti degli altri, soprattutto delle grandi firme del giornalismo. Chi avesse tentato di anteporre una tesi preconfezionata sarebbe stato deriso da tutti.
Di questo rito non è rimasto più niente. Se non il guscio vuoto della “riunione da fare” e dell’ordine del giorno da assolvere come una formalità. Oggi il dibattito è precostituito, si preferisce non perdere tempo e dare subito la propria ricetta. Capire quello che è realmente successo interessa poco. Perché preoccuparsi se un consistente pacchetto di voti resta attaccato ad un simbolo?
Quindi nessuno si illude di partecipare ad un dibattito vero, di poter essere ascoltato da più di tre amici e sperare di essere letto oltre le prime dieci righe (lo sforzo che in genere si fa per un post). Scrivo per puro esercizio dell’intelletto, direte. Sì, perché ci sarà un momento in cui si tornerà a ragionare, e il valore delle idee riprenderà il suo posto.
Fatta questa lunga premessa, esaurite le poche righe che sono sufficienti ad allontanare coloro che vanno di fretta, vorrei provare a cimentarmi non tanto con l’analisi del voto – mi contraddirei in maniera clamorosa – quanto con l’analisi dell’analisi del voto. Cioè vorrei tentare di evidenziare le incongruenze di alcune delle tesi sinora esposte nel dibattito del Pd o sul Pd, spesso avanzate senza argomentazioni e solo per interesse di parte.
Partirei dalla prima e forse la più consistente affermazione, che emerge da qualche anno dopo ogni voto. La tesi è pressappoco questa: il partito non ha collegamento con la realtà, dispone di un gruppo dirigente chiuso in se stesso (D’Alema si chiede dove prendano il caffè la mattina), senza idee, abituato a sbrodolarsi addosso frasi fatte, gente che farebbe meglio a sparire (tesi elaborata da Ignazio Marino), mentre abbiamo una marea di sindaci e amministratori locali che tutti i giorni si occupano dei problemi delle persone. Non è necessario che questi problemi trovino soluzione, l’importante è che almeno se ne occupino. Per cui si giunge al fatidico facciamo del Pd il “partito dei sindaci”.
La questione ha ovviamente poi una immediata ricaduta sull’individuazione dei potenziali candidati espressione della categoria. Ecco farsi avanti i Ricci, i Nardella, i De Caro, perché no, i Beppe Sala.
Discorso a parte meritano i “governatori“, che hanno assunto in questi anni un ruolo ancora più forte nella costruzione di sistemi politici locali ad uso personale, e che hanno ridotto nelle loro regioni il Pd a partito di mero supporto. Valga per tutti l’esempio del comitato regionale della Campania. Tre anni fa veniva eletto dai sostenitori del governatore un segretario che non è riuscito – dal giorno della sua elezione e per ben tre anni – a tenere una sola riunione, neanche della sua stessa segreteria. L’inevitabile commissariamento è arrivato solo grazie a Letta appena due mesi fa.
Il tema va affrontato a questo punto seriamente. Perché proprio l’insistenza con cui questa tesi viene riproposta ogni volta che si apre una crisi genera un sospetto. Ci spinge a pensare che proprio se scaviamo in questa direzione troviamo una delle ragioni della sconfitta. In qualche modo è vero esattamente il contrario. È proprio perché il Pd è da decenni saldamente nelle mani di quel ceto politico espressione del potere locale (sindaci in testa) che non riesce ad essere più quel “cigno” – la citazione è di Togliatti – che con la sua testa alta e la sua eleganza simboleggia un partito autonomo, in grado di decidere senza condizionamenti.
Proviamo a fare alcuni esempi concreti. In questi anni il Pd ha usato a mani basse, fino ad abusarne, lo strumento delle “liste civiche”. In alcune elezioni locali queste liste hanno letteralmente inghiottito il partito. La destra, e Fratelli d’Italia in particolare, che ha conservato una struttura antica di partito, non hanno compiuto questa scelta. Ci sono stati casi di dirigenti del Pd che sono entrati e usciti dalle liste del partito per passare a quelle civiche a proprio piacimento. Altri che hanno ottenuto l’elezione solo grazie all’uso sfacciato di liste civetta. Con le liste civiche si è contribuito allo sfilacciamento del sistema politico, legittimando l’idea che il consenso elettorale può essere solo sinonimo di clientelismo, familismo, micro-rappresentanza territoriale. Un modello difficile da smontare, perché oggi è spesso garanzia di successo.
Quanto di questo serbatoio di voti viene travasato dai sindaci al momento del voto politico? Poco o niente: i dati sono impietosi, perché gran parte di questo voto finisce nel mare dell’astensione. Senza contare quello che è successo soprattutto al Sud, quando con il voto politico è riemerso dal nulla il consenso verso il Movimento 5 Stelle. A volte quello che è “un buon sindaco” spesso corrisponde un politico incerto, ondeggiante, incapace di decisioni forti. La sua maggioranza è tenuta insieme da atti e accordi raggiunti di volta in volta. Egli è soprattutto un gestore, un amministratore che occupa gran parte del suo tempo alla ricerca di quelle risorse aggiuntive necessarie a tenere in piedi bilanci striminziti, e una volta ottenute queste risorse, deve essere molto attento nella ricaduta sul piano della gestione.
Un esempio concreto di quello che qui sostengo è rappresentato dal voto in Campania e Puglia. Metto insieme due regioni molto diverse, anche se da anni accomunate da una medesima considerazione critica da parte dell’opinione pubblica nazionale. Eppure Letta, sfidando le critiche, ha messo in atto una strategia tesa ad offrire ai due leader locali (De Luca ed Emiliano) ampio e discrezionale potere nella scelta dei candidati del Pd, proprio con lo scopo di agevolare lo spostamento dei voti dalle loro numerose liste civiche verso il Pd. Inutile aggiungere che questo tentativo ha funzionato solo in minima parte.
A conferma di questa mia tesi aggiungerei un ulteriore argomento. L’occlusione di ogni vaso comunicante tra i sistemi politici locali e quello nazionale è dimostrata indirettamente dalla rapida azione di riposizionamento in atto in queste ore. Sono numerosi gli esponenti di centro-sinistra (De Luca lo ha già fatto) che hanno espresso primi apprezzamenti verso la Meloni, con l’evidente scopo di stabilire subito un collegamento istituzionale con il nuovo governo. Normale, direte. Legittimo, aggiungo. Anche se non è così normale dappertutto, e non avviene in modo così sguaiato come sta accadendo da noi. Mi domando ad esempio che posizione difenderà il governatore dell’Emilia-Romagna – anch’egli nella lista dei probabili candidati alla segreteria del Pd – quando arriverà sul tavolo della conferenza Stato-Regioni il dossier sulla “autonomia differenziata”, da lui sostenuta in passato ma ormai osteggiata apertamente dal Pd e da ampi settori della sinistra non solo meridionale.
Il conflitto d’interessi si consoliderà, via via che governo, regioni e amministrazioni locali dovranno necessariamente collaborare. Il Pd dovrà prendere le distanze da tutto ciò e costruire un autonomo pensiero politico. Vedremo che coerenza ci sarà con quanto Letta ha definito in direzione “una salutare fase di opposizione”.
Ma c’è una ragione ancora più di fondo che dovrebbe sconsigliare di cercare tra gli amministratori locali le figure politiche di primo piano su cui ricostruire l’azione del Pd. I sindaci e i governatori sono l’immagine concreta di quel partito percepito come un mero strumento di potere, un partito che affida alla gestione il compito di occuparsi di problemi concreti. Ovviamente non è così, ed è proprio questa assoluta dedizione al potere – cosa farà una parte del Pd senza potere lo vedremo presto – che ha reso il Pd senza voce, incapace di comunicare con le persone.
Il problema non è ovviamente avere l’ambizione di governare, il problema è aver inglobato nel proprio Dna l’obbligo assoluto di farlo. La soluzione è invece in una chiara scelta a tutela dell’autonomia della politica. Autonomia significa distinzione di ruoli, lavorare per una rigida separazione tra chi gestisce la linea politica e chi ha compiti di gestione. Oggi questa autonomia è a senso unico: i gruppi parlamentari e gli eletti di ogni ordine e grado rivendicano autonomia, in generale sappiamo che è esercitata pienamente. La stessa cosa non si fa per il partito. La ragione principale sta nel fatto che non ci sono gruppi dirigenti distinti, non c’è separazione di ruoli e di poteri. A questa scelta serve dare più forza rafforzando i poteri del partito nella indicazione dei candidati e nella formazione delle liste, nel definire i criteri di adesione al partito ma anche le regole di esclusione. Un partito meno autobus da cui si sale e si scende a piacimento e più “casa di tutti” costruita con serietà e in cui si partecipa lealmente a prescindere dai ruoli.
Ma tutto ciò è sufficiente per ritrovare concretamente il modo di dialogare con i ceti più poveri della società? Cosa c’entra l’autonomia del partito con la necessità di ritornare ad essere un partito in grado di rappresentare pezzi del mondo del lavoro, dal privato a pubblico impiego, dalle professioni alle partite Iva, dai riders ai giovani disoccupati? Tutti temi utili per una seconda riflessione.
(1 – continua)
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