Se vi è sfuggita vi rammento la geografia politica di questi tempi. La Basilicata confina a nord con l’Abruzzo e a est con Bruxelles. Perciò fa fatica a trovare un buon candidato del campo largo. Appena ne trovi uno, quello si confonde e non sa più se sta rappresentando i suoi concittadini del nord o se deve interpretare il ruolo di ariete per sfondare il confine dell’Europa. Sì, perché dopo la non vittoria abruzzese, per alcuni, le sirene delle europee inducono i romani a tentare geometrie variabili in funzione di cosa conviene a loro. E non ai lucani.
Se si prende un candidato che unisce il campo larghissimo non ci si può distinguere per bene alle europee, pur rischiando di vincere. Se si prende uno che sia più adatto alla coalizione 5 Stelle-Pd si perde quasi di certo, ma si può dare addosso ai centristi e capitalizzare il voto.
La partita è chiara. I partiti sentono l’odore del sangue, le europee sono il punto di partenza della seconda metà della legislatura e su quei voti si misureranno leadership, ambizioni e potere. Perciò ci si guarda con diffidenza dopo che le montagne marsicane si sono svuotate di elettori progressisti, rari come lupi negli anni Settanta. La Lucania, un tempo feudo Pd, è passata di mano e il vecchio ceto dirigente è ancora sanguinante per le inchieste concluse nel nulla che sono costate la carriera a un pezzo di ceto dirigente locale affossato dai grillini e dal nuovo corso del Pd ben prima delle sentenze. Così, nel caos, a nessuno interessa davvero vincere, quanto posizionarsi.
Renzi e Calenda, sempre a litigare, alla fine rischiano di dar vita all’ennesima a incursione in campo avverso tentando di blandire il governatore uscente Vito Bardi e a farsi accettare nella malcelata ambizione di sottrarre voti al centro della destra. Sarebbe utile per loro capire se siano attrattivi anche quando vanno di là e serve a loro anche per fare la tara al loro elettorato in prospettiva europee. Così, nello sfascio caotico post Abruzzo e Sardegna, la Basilicata potrebbe rappresentare il terzo esperimento di coalizione in chiave anti-Meloni per Pd e 5 Stelle.
Sia chiaro, nessuno ha le idee chiare al punto di dire che questo si voleva, ma per come si sono messe le cose la soluzione potrebbe non essere così inutile. Del resto si va avanti per approssimazioni successive e senza un vero contesto politico di riferimento per ora, per cui da ogni esperimento può venire fuori una lezione. A patto di comprenderla. Certo è un peccato che nessuno si stia ponendo il tema del perché stare assieme, piuttosto del come, non considerando quanto manchi sulla scena un’alternativa politica ampia e riflettuta alle posizioni meloniane. E purtroppo la cosa appare anche in parte voluta.
La tesi è sempre la solita. Al di fuori della maggioranza si spera solo nel logorarsi di Giorgia e della maggioranza piuttosto che a proporre un’alternativa credibile, convinti che il pendolo del potere prima o poi riporterà gli elettori dalla parte loro. In questo tempo di mezzo conta solo esserci e prendere i voti che servono, non tanto vincere e governare. E per fare la propria figura si deve accettare una posizione dai confini variabili, dalla geografia improbabile, nell’attesa che accada qualcosa. Se accade.
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