Cinque anni fa il candidato del centrosinistra in Lombardia Giorgio Gori non superò neanche il 30% dei voti, si fermò al 29,09%. Nel Lazio Nicola Zingaretti vinse a sorpresa con il 32,9% battendo sul filo di lana sia il candidato del centrodestra (il milanese Stefano Parisi raggiunse il 31,2%) che la candidata del Movimento 5Stelle (Roberta Lombardi si fermò al 27%).
Oggi Pierfrancesco Maiorino, il candidato del centrosinistra lombardo sostenuto anche dai 5Stelle, raggiunge il 33%. Alessio D’Amato nel Lazio fa ancora meglio di Zingaretti e raggiunge il 36%. Inutile dire che parliamo di voti in percentuali, perché il crollo della partecipazione (simile a quel 38% di votanti registrato in Emilia-Romagna in occasione dell’elezione di Bonaccini) rende il risultato in voti assoluti impietosi per tutti, vincitori e vinti. A dimostrazione di come gli italiani hanno a cuore le sorti delle loro Regioni!
Cinque anni fa era il 2018, l’anno del trionfo dei due partiti populisti (la Lega e i Grillini) e della nascita del Governo giallo-verde di Giuseppe Conte I. Oggi sembrano anni lontanissimi, perché in mezzo abbiamo attraversato vicende terribili come la pandemia e la guerra nel cuore dell’Europa, fino alla vittoria della Meloni.
Dunque il Pd senza un leader e senza una strategia condivisa – il congresso è appena iniziato – ha tenuto le sue posizioni, e in qualche caso si migliora di qualche punto. Niente male per un partito in fin di vita, assediato da due finti alleati interessati solo a spartirsi le sue spoglie. Il Pd ha ancora una volta dimostrato che la sua esistenza prescinde dai suoi gruppi dirigenti. Diciamoci la verità, in qualche modo potrebbe anche farne a meno, dei dirigenti dico, basterebbe che la comunità che lo anima decidesse di autogovernarsi, di prendere con più coraggio le redini della situazione.
Il primo a fallire è stato il tentativo di Giuseppe Conte di giocare a fare la sinistra. L’avvocato del popolo risulta talmente goffo in questo ruolo che ormai non convince neanche più i suoi, sempre più ansiosi di riprendere il dialogo con il Pd interrotto bruscamente. E di cui ancora non abbiamo compreso le reali motivazioni. Conte porta a casa due risultati deludenti, un misero 5,7% in Lombardia ma soprattutto nel Lazio, dove ha deciso di andare da solo contro il Pd, si è fermato all’11,3%, ben -16 punti rispetto a 5 anni fa.
Ma anche l’assalto al Pd lanciato dal terzo polo di Calenda e Renzi si è trasformato in una clamorosa debacle. In Lombardia la candidatura della Moratti si è rivelata di un’inconsistenza assoluta, fermandosi al 9,45%, niente di più di quanto hanno raccolto in passato le formazioni centriste. A Calenda e Renzi è andato un deludente 4%, e un misero 6,4% in città a Milano, dove si riponevano grandi aspettative.
Va ancora peggio per il terzo polo nel Lazio, dove sosteneva D’Amato. Qui il partito di Calenda e Renzi resta fermo al 5%. È l’identica percentuale raccolta a Roma, dove il leader di Azione aveva poco più di un anno fa come candidato sindaco preso più del 20%. Che fine hanno fatto i voti dell’uomo dei Parioli? Possiamo considerare già archiviato il velleitario progetto di conquista della capitale?<
Il fenomeno politico più rilevante registrato in questi anni nelle due principali città italiane chiamate ieri al voto – Roma e Milano – è stato definito con un certo disprezzo “il partito della Ztl”. Cioè quel partito costituito dalla borghesia benestante e di sinistra che affolla i centri storici, gente convinta di avere la risposta a ogni problema della società contemporanea, senza aver mai messo il naso al di fuori dei ristrettì confini dei loro bei quartieri. Questi settori della società amano comandare, ricoprono posti di rilievo nella Pubblica amministrazione e quindi convivono ogni santo giorno con il potere. Costoro hanno occupato militarmente il Pd in questi ultimi 10 anni. Esso era perfetto come “partito della responsabilità”, pronto a ogni sacrificio in nome della governabilità: il Pd ci doveva mettere i suoi voti e loro la duttilità al comando.
“Lor Signori”, come li avrebbe chiamati Fortebraccio, quando hanno capito che le cose stavano cambiando, senza esitare o provare sensi di colpa, hanno abbandonato il Pd al suo destino. La prima zattera disponibile (il terzo polo) li avrebbe dovuto traghettare verso i nuovi potenti promettendo in cambio di portare i voti del Pd.
Ora non sappiamo bene come evolverà la situazione nei prossimi mesi, ma di una cosa siamo sicuri. Siamo sicuri degli elettori del Pd, i veri azionisti di riferimento della sinistra italiana. Mi riferisco a quel popolo generoso di creduloni, sempre pronto a dare fiducia al primo che passa, sempre disponibile a lasciarsi suggestionare con il discorso più nuovo che c’è, a flagellarsi di fronte alla critica più spietata. Ma gli elettori del Pd hanno un difetto, restano sempre fedeli alla causa, non tradiscono mai. I capi possono anche andarsene, loro restano.
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