C’è stato un momento preciso in cui la parola “riformismo” è stata sdoganata ed è entrata nel linguaggio corrente della politica italiana. Prima di allora era una parola “proibita”. Almeno nell’ambito della sinistra comunista, che è stata per molto tempo la sinistra “dominante” in Italia. Ma anche i socialisti la usavano con parsimonia. Retaggio di una storia di cui oggi pochi conservano il ricordo e che affonda le sue origini negli anni che precedono e seguono la prima guerra mondiale, quando – come del resto accade ancora oggi – la sinistra europea si spaccò, e nacquero all’interno della Seconda internazionale due schieramenti contrapposti tra chi era a favore al conflitto e chi vi si opponeva. Uno scontro insanabile, che diede vita alla Terza internazionale, che di lì a poco obbligò alla rottura in ogni Paese tra socialdemocratici e comunisti, cosa che accadde puntualmente in Italia con la scissione e la nascita nel 1921 del PCI. Per decenni il termine “riformista” fu associato alla socialdemocrazia, a quei drammatici anni che condussero al fascismo e al nazismo, e una gran parte del movimento dei lavoratori lo usò per identificare i “traditori” al servizio del capitalismo, e quindi fu bandito dal loro linguaggio comune.



Nel secondo dopoguerra era molto in voga il termine “riformatore”, che voleva dire perseguire il programma socialista attraverso le “riforme” e la democrazia, ma senza abbandonare i principi e i valori del socialismo. Le riforme e il voto erano mezzi “democratici” per costruire la società socialista. “Riformatore” era usato volutamente in polemica con il termine “riformista”, declassato a sinonimo di “socialdemocratico”, che nonostante quello che si pensi oggi era considerato da molti – a quasi 50 anni dalla scissione – ancora come un insulto.



Lo sdoganamento di cui dicevo all’inizio coincide con la fine dell’unità nazionale (1979) e la quasi contemporanea crisi della linea delle grandi intese sostenute con il “compromesso storico”. Siamo agli inizi degli anni 80 e la crisi politica e strategica del PCI offrì spazi nuovi a chi auspicava una svolta socialdemocratica. Coloro che nel PCI timidamente ritenevano insensato non lavorare ad una ricomposizione tra comunisti e socialisti evitarono però accuratamente di prendere il toro per le corna, e decisero che non era il caso di autodefinirsi “socialdemocratici” e preferirono così, con le dovute cautele, chiamarsi “riformisti”.



Ne abbiamo traccia nel piccolo ma efficace volume I comunisti italiani e il riformismo scritto da L. Paggi e M. D’Angelillo nel 1986. Pubblicato nella collana del Nuovo Politecnico Einaudi il libro ha il pregio di partire da un lavoro scientifico di confronto tra la storia del PCI e degli altri partiti socialdemocratici europei.

Quando a cavallo degli anni 90 e in piena crisi della prima repubblica scomparvero ad uno ad uno i partiti che ne costituivano l’ossatura – tra cui anche il piccolo PSDI, il partito socialdemocratico italiano fondato da Giuseppe Saragat e portato alla rovina da Pietro Longo – la scelta si rivelò azzeccata. Inutile cercare di riabilitare quel nome usato in tutta Europa – dai tedeschi della SPD agli inglesi del Labour Party – e che mai Occhetto avrebbe preso in considerazione per il suo nuovo partito post-comunista. Meglio dedicarsi alla riabilitazione del “riformismo”.

La cosa riuscì, con i tempi e le modalità tipiche della ex sinistra comunista italiana. L’operazione fu lenta – qualche articolo, poi un convegno, qualche accalorato intervento pubblico, il “rilancio” su qualche giornale amico – e ricca di spirito di mediazione. Quando incominciarono a definirsi “riformisti” i giovani leoni del PDS – Veltroni, Fassino, lo stesso D’Alema – i vecchi “miglioristi” guidati da Napolitano e Macaluso si considerarono molto soddisfatti del percorso fatto. Meglio tutti riformisti che stare lì a rivangare vecchi conflitti del passato.

Così dagli anni 90 in poi la parola “riformista” è stata completamente adottata nel lessico politico della sinistra italiana. Tutti si sono prima o poi dichiarati riformisti. Anzi, si aprì una ridicola corsa alla primogenitura, a nessuno si poteva negare la possibilità di aver dato inizio alla “corrente” dei riformisti. In Italia le cose vanno così. Con un’ardita operazione di riscrittura storica molti trovarono naturale annoverare tra i padri del “riformismo” autorevoli esponenti come Berlinguer, Gramsci, addirittura Togliatti. Tutta gente che neanche sotto tortura avrebbero ammesso di esserlo.

Il punto è che come spesso accade in Italia, le cose sfuggono di mano e degenerano. Così, in assenza di un soggetto regolatore e di una sana e robusta preparazione culturale, il professarsi riformista è divenuto una moda, un intercalare inteso come “pura politica politicante”. A dispregio della cultura delle riforme, dello sforzo di ricerca e culturale dei padri fondatori, del contributo della scienza alla ricerca delle soluzioni più giuste e non solo possibili, del rispetto dei valori e dei principi della sinistra.

Il tutto è stato poi aggravato da lunghi anni di gestione del potere. Riformista è diventato sinonimo di governabilità a tutti i costi, spesso motivata dall’incombere di terribili crisi imminenti, soprattutto quelle generate dai mercati finanziari. Con il termine riformismo si è così inteso giustificare ogni tipologia di accordo, ogni mediazione al ribasso, ogni scelta fatta in nome della conservazione del proprio posto. Insomma lentamente “riformismo” è tornata ad essere una parolaccia, priva di significato, ormai separata dal contesto culturale, politico, programmatico, in cui si opera.

Quindi nel lessico comune è diventato “riformista” colui che preferisce un bel governo tecnico, casomai con a capo un tecnocrate prelevato dalla Banca d’Italia, piuttosto che un governo politico di coalizione tra forze omogenee. Oppure è riformista chi chiude un occhio sulla deriva dei conti pubblici, quando dovrebbe essere il contrario. In poche parole, il campione del riformismo non è più la vecchia e gloriosa nomenclatura del PCI guidata da Napolitano, ma è rappresentata dal più giovane e aggressivo Matteo Renzi.

Renzi ha rappresentato bene questa parabola, sin dall’inizio, quando, lasciata la segreteria del PD e annunciata la morte del partito che aveva appena diretto, decise di togliere gli ormeggi. C’era Macron ad indicare la strada. Al centro ovviamente. Parlare ai moderati diventava la priorità. Anche se poi questa benedetta area moderata non si schioda da un risicato 3-4%. Così i riformisti si sono fatti – cento anni dopo – riespellere dalla sinistra italiana. Per nostra fortuna i tempi sono cambiati ma la sostanza sembra essere rimasta la stessa. C’è chi addirittura tra i “riformisti” – quelli tutti di un pezzo – non ha esitato a evocare la vittoria della Le Pen in nome del fatto che “meglio una destra seria che questi pazzi scellerati pacifisti di sinistra”.

Il cerchio quindi si è richiuso. Lo sputtanamento è totale. Renzi annuncia nello sconforto generale dei suoi e nell’imbarazzo dei vertici del PD che è ora di tornare a casa. Cioè nel centrosinistra, l’unica casa rimasta in piedi – a suo dire – per i riformisti. Ecco perché l’appropriazione indebita che è stata fatta del concetto di “riformismo” impone una scelta radicale: il destino di questa onorevole parola è di ritornare chiusa in una teca da conservare in un museo della storia del movimento operaio, tra la foto di Bernstein, di Lenin e del rinnegato Kautsky. Chi saranno mai, direte? I primi a litigare sul concetto di riformismo, più di un secolo fa.

Una soluzione al problema: dopo appena 40 anni dalla fine della prima repubblica (“appena” è ovviamente ironico), sarebbe ora di definirsi – senza imbarazzo – socialdemocratici. Socialisti e democratici, come lo sono i tedeschi, come lo è la nuova sinistra rinata in Francia, o ancor di più come si definiscono Pedro Sánchez in Spagna e Keir Starmer in Gran Bretagna. La speranza è che Elly Schlein faccia l’ultima cosa che manca, ora che guida il più forte gruppo del Partito Socialista Europeo (PSE): eliminare questo equivoco, e ridare finalmente all’Italia quello che manca da oltre un secolo, il grande partito unico della sinistra democratica, rivendicando a sé e a pieno titolo il nome di “partito socialdemocratico”.

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