L’attacco sferrato da Renzi agli ex colleghi di governo Minniti e Gentiloni sulle scelte compiute da costoro nel 2017 in materia di immigrazione e di accordi con la Libia ha il chiaro sapore della vendetta. Quella che in gergo si definisce “servita fredda”.
Nel merito si può anche discutere se Marco Minniti – appena nominato ministro degli Interni al posto di Alfano – abbia fatto bene a lavorare affinché in Libia il legittimo governo collaborasse con il governo italiano per bloccare il flusso crescente di immigrati. Quello che è certo è che molti italiani apprezzarono e per questo motivo lo hanno considerato uno dei migliori ministri dell’Interno della Seconda Repubblica. Tale riconoscimento era stato poi la base su cui si era ipotizzata la sua candidatura a segretario del Pd. Candidatura repentinamente ritirata appena fu chiaro che Renzi non l’avrebbe sostenuta lealmente.
Inutile ricordare ora che nell’estate 2017 la crisi fu reale e giunsero in Italia un numero di immigrati decine di volte superiore a quello di oggi. Inutile, soprattutto ora, cercare di ricordare agli uomini del Pd che la sinistra era al governo del paese e cercava di affrontare un problema complesso e drammatico con delle soluzioni e non mettendosi in fila sulla banchina del porto di Lampedusa, in coda per scattare un selfie a bordo della Sea Watch 3.
Quello che però interessa oggi è capire il perché di questo attacco improvviso di Renzi. Perché viene mosso proprio in questo preciso momento?
Renzi ha chiaramente l’obiettivo di attaccare da sinistra l’ala moderata della coalizione che ha fatto vincere Zingaretti. E lo fa perché sa perfettamente che in questo momento quest’area è in fibrillazione: percepisce la debolezza del neo segretario e già pensa a come fare per smarcarsi. E lo fa cercando alleati tra gli oppositori più accomodanti.
Lo sa benissimo uno degli uomini più fidati dell’ex primo ministro, il lodigiano Lorenzo Guerini. Proprio Guerini – a margine della riunione di corrente tenuta in questo fine settimana a Montecatini – ha riunito un gruppo di fedelissimi per affrontare la spinosa questione dell’affaire Lotti, che ha screditato e immobilizzato la corrente, e sulla linea da tenere con la maggioranza zingarettiana. Alla fine è prevalsa la linea di spingere per una maggiore collaborazione, cioè in pratica lavorare per riallacciare intese con i partner dell’ex maggioranza renziana (i franceschiniani come la Sereni e la De Michele e gli stessi “traditori”, a cominciare dal manipolo milanese guidato da Bussolati, entrato inspiegabilmente in segreteria) con lo scopo di isolare sul territorio i pochi fedelissimi del segretario.
Renzi, in realtà, vuole inserire un cuneo tra Zingaretti e l’ala moderata, agitando un vessillo caro alla sinistra Pd. Conta, cioè, sul fatto che Zingaretti non potrà mai correre in soccorso degli ex ministri su un tema così forte e discriminante per la sinistra che lo ha sostenuto (da Majorino a Cuperlo, da Mimmo Lucano al dottor Bartolo).
Aprire una crisi tra Zingaretti e i moderati del Pd evidentemente è la condizione per poi sferrare l’attacco finale prossimo venturo. Che – a questo punto – dobbiamo immaginare molto vicino. Potrebbe essere fatale la prossima sconfitta elettorale, visto che nessuno crede più alla possibilità che il Pd sia in grado di difendere l’Emilia-Romagna nel turno di novembre. E Dio solo sa cosa vuol dire per il popolo della sinistra perdere quella regione!
Cosa dovrebbe fare Zingaretti? Possibile che il segretario – trascorsi i primi 100 giorni – non trovi ancora il guizzo necessario per replicare all’iper-attivismo di Renzi?
La risposta più ragionevole dovrebbe essere quella di sorprendere tutti con una netta apertura all’ala moderata del partito. Nessuno nega che Salvini stia rovinosamente avvelenando i pozzi e rendendo impossibile ogni tentennamento sul piano dei valori e della solidarietà umana. Ma una forza politica che aspira a tornare a governare il paese non può gettarsi tra le braccia della capitana della Sea Watch 3, per giunta tedesca.
Zingaretti dovrebbe spezzare con un’azione decisa ogni tentativo di spingere il Pd nel perimetro della sinistra bersaniana e rilanciare la sua vocazione maggioritaria. A cominciare da una difesa seria dell’operato di Minniti. Operato forse tardivo rispetto all’ampiezza della crisi, non certo sbagliato.
Fatta questa mossa e messa al sicuro la sua ampia maggioranza politica, dovrebbe invece non abbassare la guardia sul piano interno e impedire con ogni mezzo i tentativi di soffocare sul nascere – ve ne sono già parecchi in giro, da nord a sud – un reale cambiamento del partito territoriale.