In queste ore in cui sta nascendo il nuovo governo vorrei provare ad argomentare – al di là di ogni scetticismo politico-intellettuale; di una politica troppo “esperta” per avere la generosità dei momenti che richiedono coraggio, e di un intellettualismo che ne sa sempre una di più delle necessità del momento presente – perché questa svolta, che è insieme politica e istituzionale, era necessaria, e perché può durare, se i suoi principali attori la sapranno gestire.



Era necessaria perché la curvatura che il salvinismo stava imprimendo al quadro politico e istituzionale del Paese era insostenibile. Per le vie traverse della politica “ordinaria” (una prassi quotidiana di governo nei toni e nella sostanza in più di un caso ai limiti della sostenibilità costituzionale), Salvini stava cercando di imporre, quanto meno nella costituzione materiale del Paese, una nuova forma di governo, molto simile alle democrature autoritarie dell’Est europeo. Un modo di rispondere alla crisi della rappresentanza politica nelle liberal-democrazie non solo suo, che ha il suo fascino, e i suoi esperimenti, persino nella culla anglosassone della liberal-democrazia, gli Usa di Trump e oggi il Regno Unito di Boris Johnson. Ma che ha il lieve difetto, per le aspettative individuali dei cittadini delle liberal-democrazie occidentali, di rappresentare un crollo secco delle libertà e dei diritti cui sono abituati.



Giuliano Ferrara su Il Foglio ha tessuto un elogio convincente del ruolo del Parlamento, e della rappresentanza parlamentare, nel fare argine nelle liberal-democrazie a questo pericoloso arretramento democratico delle nostre società. E non è un caso che il salvinismo ha in Parlamento – e nel premier che questo Parlamento aveva espresso – trovato argine alle sue ambizioni di democrazia forte, perseguite per altro in un format sovranista il cui orizzonte di fatto era la secessione dall’impediente vincolo europeo a questo disegno; per poi peraltro magari regolare al proprio interno, nella riconquistata “sovranità” nazionale, i conti tra Nord e Sud del Paese a vantaggio del prevalente insediamento socio-economico del suo partito.



Un mix francamente insostenibile in un Paese, l’Italia, che ha possibilità di contare qualcosa nel mondo globale, tutelando i suoi interessi, solo se inserito in una delle cinque o sei piattaforme geopolitiche, a dimensione continentale, del mondo multipolare. E l’Europa è una di queste piattaforme continentali, la nostra; che ci piaccia o no, possiamo solo migliorarla, ma non abrogarla.

Insomma, il sovranismo, in qualsiasi forma lo si voglia presentare, anche più elegante della richiesta di pieni poteri in costume da bagno dal Papeete, non è una soluzione sostenibile alla crisi della rappresentanza politica in una società liberal-democratica come è quella italiana, strutturalmente inserita in un contesto euro-atlantico. È contro le leggi della fisica della politica, che oggi è geopolitica, cui siamo tenuti per il nostro stesso interesse nazionale; e da un suo successo noi potremmo avere solo danni irreversibili. Il che peraltro spiega la resistenza nello stesso centrodestra (il centrodestra con una storia liberale alle spalle, e più esperto del “mondo” reale e non raccontato nelle campagne elettorali) a questo progetto.

In questa situazione è un bene che con il nuovo governo che si profila tra Cinquestelle, Pd, Leu, Autonomie, si torni sotto l’insperata guida di Conte, l’unica possibile alle condizioni date, come il percorso della crisi ha dimostrato, all’“usato sicuro”. E non nel senso del ceto politico. Ad argomentare che non di questo si tratta basta l’evidenza della sua base parlamentare, per i due terzi pentastellata, e il fatto che va all’opposizione con la Lega la forza politica più longeva in Parlamento.

Salvini è lì da ventisei anni, anche se è stato bravissimo a far credere che nello scollamento tra politica e cittadini patito nella Seconda Repubblica lui non c’era e non c’entrasse nulla.

Se di questo si trattasse, sarebbe poca cosa l’accordo che si sta mettendo su, e con basi fragili nel Paese. Qui l’“usato sicuro”, contro le scorciatoie sovraniste o dell’uomo forte, che il presidente Conte ha indicato è il ritorno ai valori costituzionali – puntigliosamente rubricati nel discorso di accettazione dell’incarico, dai diritti della persona al ruolo del Parlamento, luogo dove ha portato e gestito la crisi di governo più trasparente che si ricordi –, all’assennatezza di una collocazione euro-atlantica per contribuire per quanto possiamo a più accettabili equilibri sulla scena internazionale, a un rinnovato umanesimo, che è nelle genealogie migliori di questo Paese. A una politica che esterni sobriamente e lavori alacremente, perché i problemi complessi non si risolvono a colpi di tweet e social, tra troll e fakes, ma con pensieri lunghi e studiandosi con pazienza i dossier, piuttosto che i sondaggi.

Se il passo del governo sarà questo – sostenuto dalla generosità di chi è chiamato ad essere generoso con il suo Paese – questo governo durerà e farà un gran bene all’Italia. In questi ultimi dieci anni quel che si doveva sommuovere in questo Paese, si è sommosso, talvolta scompostamente; e poiché i fatti hanno la testa dura era evidentemente anche una necessità. Ora si tratta di muoversi con razionalità innovativa per un’Italia che sappia voler più bene a se stessa e al suo futuro.