Il crollo verticale della fiducia tra i leader del centrodestra e la spaccatura promossa da Di Maio del Movimento 5 Stelle hanno spinto i principali partiti a riconsiderare le strategie che perseguivano da tempo. Quello che una volta si considerava il granitico centrodestra non esiste più, almeno dal giorno del voto per il presidente della Repubblica, quando Salvini “dimenticò” di raggiungere la Meloni nel suo ufficio. Il voto amministrativo di giugno, con la cocente sconfitta meloniana di Verona, ha fatto il resto. Praticamente seguendo la stessa tempistica Giuseppe Conte non è riuscita a schivare nessuno degli ostacoli posti sul suo cammino e ha condotto la nave del Movimento in un mare morto e senza vie di uscita.



E poi la guerra in Ucraina. Anche in questo caso può sembrare una coincidenza, ma non lo è: tutte le forze che hanno provato a distinguersi dalla linea europeista e di fedeltà assoluta alle decisioni dell’amministrazione americana scelta da Draghi hanno imboccato la via di  una rapida discesa nei consensi. Vale per la Lega e per il M5s, in particolare. Ma anche per le altre piccole formazione di sinistra che hanno riportato alla luce vecchie visioni antiamericane e spinte neutraliste. Al contrario, il riemergere nell’elettorato italiano delle radici di una antica tradizione di fedeltà al patto atlantico, ha subito riprodotto nella situazione politica italiana un fenomeno ben noto nella prima repubblica, quando il solo sospetto di una relazione con il mondo sovietico era considerato motivo sufficiente per turarsi il naso e votare compatti la Dc.



Sarà stato quest’insieme di fattori a spingere i leader dei due principali partiti – tali sono il Pd e FdI nei sondaggi – a sentirsi in varie occasioni pubbliche e private, e a concordare sul fatto che è arrivato il momento di mettere mano alla legge elettorale. Letta e la Meloni si sono trovati d’accordo nel considerare necessaria una legge che libera entrambi gli schieramenti dai condizionamenti dei più piccoli e nel riportare la competizione elettorale su un terreno aperto a più esiti. Solo una legge interamente proporzionale può garantire questo risultato, procedendo come prima cosa con l’eliminazione della quota riservata ai collegi uninominali.



La Meloni vuole evitare di fare la portatrice di voti ad un centrodestra sempre più diviso e litigioso. Perché mai dovrebbe sacrificare tanti collegi ed eletti in nome di una unità che molti giudicano solo di facciata? Perché dovrebbe cedere in partenza ad ogni legittima aspirazione a diventare la leader più forte e più votata? Molte forze del centrodestra vagano alla ricerca di una nuova casa. Non vi è dubbio che la crisi della Lega di Salvini ha accelerato la diaspora di quelle forze che avevano creduto – soprattutto al Centro-Sud – al sogno della vittoria del leader leghista. Ma anche in Forza Italia non si aspetta altro per dichiarare il “liberi tutti” e sottrarsi all’abbraccio dei due partiti populisti.

Anche Letta deve fare i conti con l’impossibilità di costruire – almeno prima del voto – quel campo largo dove far coesistere forze molto diverse tra di loro e con aspirazioni inconciliabili. L’arrivo di Di Maio con il suo folto gruppo di parlamentari nell’area del centro ha scompaginato molti sogni di gloria. Il solo Calenda sembra poco interessato al ruolo che in ogni caso può giocare il ministro degli Esteri. Tenace e testardo, l’ex ministro dello Sviluppo economico tenterà, seguendo il modello che a Roma gli ha portato fortuna, la scalata solitaria, e una legge proporzionale con una soglia relativamente bassa – si parla di confermare il 3% previsto già dal Rosatellum – può solo aiutarlo.

Più accidentato sembra ora lo spazio di manovra di Renzi e della pattuglia di Italia viva, messi ora di fronte al bivio se scegliere di confluire in una “cosa” molto democristiana con Di Maio, Mastella, e forse qualche sindaco come Sala, o in una “cosa” decisamente di destra, con Toti, la Carfagna e Lupi. Senza dimenticare che alla sinistra del Pd si muove anche una nuova piccola aggregazione autodefinitasi “cocomero”, visto il tentativo di tenere insieme quel che resta dei Verdi italiani fino al gruppo dei rossi di Potere al Popolo.

Le previsioni a questo punto non promettono nulla di buono, anzi, possiamo immaginare una fine estate e un inizio autunno molto turbolenti. Si sa che quando le aule mettono mano alla legge elettorale preparano rapidamente la loro fine. Lo scoglio di una difficile legge di bilancio contribuirà a rendere ancora di più agitate le acque per il governo Draghi. Non sembra quindi più una lontana possibilità la fine anticipata della legislatura ed un voto in pieno inverno, a cavallo del nuovo anno. Soprattutto se il nuovo parlamento molto probabilmente confermerà l’impossibilità di nuove maggioranze e renderà praticamente inevitabile ripartire da dove si era conclusa la legislatura precedente.

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