Il 23 dicembre 1990 Norberto Bobbio, dopo aver letto Al di là del guado. La scelta riformista di Giorgio Napolitano, prende carta e penna e gli scrive: “Caro Napolitano, ho letto il tuo libretto. È inutile che ti dica che io sono totalmente d’accordo con te, dalla prima riga sino all’ultima. Trovo addirittura incredibile che un partito che ha fatto per anni una politica di Partito socialdemocratico, ora che potrebbe farla alla luce del sole, torni indietro a posizioni da gran tempo dal partito stesso superate”.
Bobbio ritrova in Napolitano l’interlocutore privilegiato nel PCI che era stato Giorgio Amendola. Ma tra i due Giorgio è proprio il secondo quello che ha perso il confronto interno senza neanche averlo cominciato. Il futuro presidente della Repubblica è un leader deluso, soprattutto per l’esito della svolta, e per il ruolo giocato da Occhetto e la resistenza del gruppo dirigente a prendere atto della realtà delle cose. Nella sua autobiografia Dal Pci al socialismo europeo (2005), ripercorrendo quella fase, è assai esplicito su questo punto: “L’aver preteso (e qui cita esplicitamente Occhetto) di ‘non entrare nell’altra tradizione’ nel momento in cui si usciva da quella comunista, ovverosia di non ricongiungersi espressamente e senza doppiezze con la tradizione socialista democratica, il proporsi di ‘andare oltre’ entrambe quelle tradizioni non fu segno di audacia innovativa, ma di confuso velleitarismo”. Napolitano riassume così tutta la delusione dell’area riformista, da lui fondata e diretta, che pure si era impegnata duramente e con entusiasmo nel sostenere Occhetto nella trasformazione dal PCI al PDS.
Bobbio e Napolitano sono accomunati dalla comune convinzione che ormai non esistono più ostacoli all’unità socialista. Su questo Bobbio era stato molto esplicito in un saggio precedente, L’abito fa il monaco, che abbiamo già citato. Per il filosofo socialista torinese “la principale anomalia del sistema politico” italiano rispetto a tutte le altre democrazie europee era chiaramente ricondotto ad una sola ragione politica, anzi elettorale, rappresentata dal “diverso rapporto di forza fra Partito comunista e Partito socialista”. Quando Bobbio fa quest’affermazione il PCI conserva ancora il 30% dei voti, dopo aver raggiunto il 34% alle politiche del 1976, mentre il PSI, con la linea autonomista di Craxi, non è stato in grado di superare che di pochi punti la soglia del 10%. “Quali siano le cause di questa strana composizione delle forze politiche della sinistra in Italia – si domanda Bobbio – nessuno studio, nessuna ricerca sociologica, nessuna riflessione politica generale, sono riusciti a spiegare in modo soddisfacente”.
In realtà molti studiosi di politica, di economia, di sociologia, si sono cimentati con il tema dell’anomalia italiana. Essi hanno però lavorato in sordina, in un contesto fortemente condizionato da un dibattito politico feroce, da una contrapposizione tra i leaders (in particolare quella tra Berlinguer e Craxi) che hanno lasciato davvero poco spazio alla ricerca e alla ricostruzione scientifica di un problema chiaramente complesso. In poche parole, è difficile fare ricerca quando il problema stesso viene negato. È prevalsa quindi per decenni la tesi – spesso banalizzata – che la forza elettorale del PCI altro non era che la conseguenza di una doppia morale. Eccone la filosofia principale. Sul piano politico ed ideale il PCI ha fatto poche innovazioni, confermando nella sostanza e in molte occasioni l’appartenenza al movimento comunista internazionale. Certo, con una posizione critica, ma non giungendo mai ad una rottura definitiva, fino al tracollo dell’Unione Sovietica. Sul piano dei comportamenti interni e programmatici, invece, il PCI si è mosso come un grande partito di massa, attento alla vita delle istituzioni e al ruolo dei soggetti intermedi, impegnato nella ricerca di obiettivi e di soluzioni concrete dei problemi, in una forma assai simile a quella adottata dai partiti socialdemocratici. A riprova di questa tesi per molti anni venivano indicate ad esempio la realtà delle giunte di sinistra, operanti in alcune Regioni del Centro Italia, e ritenute per questo “rosse”, e poi negli anni 70 in quasi tutte le grandi città del Paese. Questa doppiezza, o meglio, il convivere di queste due “dimensioni” apparentemente conflittuali, hanno per molti anni alimentato il mito del PCI come partito di lotta e di governo. Insomma, pur chiamandosi ancora “comunista” il PCI era e operava come un grande partito socialdemocratico. Senza dirlo, ovviamente. Anzi, rifiutando in molte occasioni – Berlinguer docet – i rischi di una “socialdemocratizzazione”, considerati un pericolo da evitare ad ogni costo.
In realtà, la verità è sempre stata un’altra. Le due anime non erano affatto scindibili, né in contraddizione tra di loro, e tra di esse ha continuato a funzionare un “equilibrio”, una sorta di patto non scritto, che portava a non intaccare il consenso frutto di un posizionamento storico, ma sostanzialmente ideologico, e consentiva al proprio interno di lasciare convivere componenti di fatto inconciliabili.
Questo è stato possibile per due motivi abbastanza evidenti. Il primo rimanda alla convinzione, in qualche modo accettata dagli stessi comunisti italiani, di escludere il PCI dal governo del Paese. Frutto degli accordi di Yalta, si sarebbe sostenuto per anni. Dopo i pochi mesi di partecipazione al governo nel dopoguerra, il PCI ha preferito saldamente presidiare i banchi dell’opposizione, senza mai apertamente porre la propria candidatura al governo del Paese, lasciando così alla Democrazia Cristiana il compito di governare, sorretta dal suo sistema di alleanze interne e internazionali.
Il secondo motivo è rappresentato dalla scelta di salvaguardare il proprio blocco sociale di riferimento, a cominciare dal forte insediamento nel movimento operaio del Nord, rappresentato autorevolmente dalla CGIL, e dalla realtà produttiva rappresentata dal movimento cooperativo, non a caso fortissimo proprio in quelle Regioni “rosse” saldamente nelle mani del PCI.
Di questa “diversità” della situazione italiana si sono occupati con scrupolo due autorevoli ricercatori a metà degli anni 80. Leonardo Paggi e Massimo D’Angelillo nel loro saggio I comunisti italiani e il riformismo provano a trovare le ragioni di questo fenomeno e soprattutto indagano le differenze con l’esperienza socialdemocratica negli altri Paesi europei, in particolare la Germania, l’Austria e la Svezia. Sono proprio i due ricercatori a segnalare come sia poco più che un luogo comune ritenere il PCI un partito socialdemocratico camuffato. In realtà le differenze sono davvero significative, e rileggere la loro ricerca trent’anni dopo aiuta non poco e in modo chiarissimo a comprendere le distanze che ancora oggi separano, e a volte in modo abissale, la sinistra italiana e quella europea nell’ambito di scelte cruciali dell’economia, delle politiche di bilancio e di sviluppo.
Paggi e D’Angelillo mettono in grande evidenza il fatto che negli anni 70 il successo dei partiti socialdemocratici in Europa è chiaramente dovuto ad una politica economica apertamente e convintamente di compartecipazione del movimento operaio alla gestione della politica industriale, ad un serio impegno nella lotta all’inflazione, e alla capacità di “scambiare” una ragionevole politica salariale con una politica di welfare avanzata. Quest’alleanza ha consentito ai partiti socialdemocratici di governare lo sviluppo industriale trasformando la Germania nella grande potenza che conosciamo, e la Svezia forse nel Paese dove si vive meglio al mondo.
Se si confrontano queste esperienze con la natura del blocco sociale rappresentato dal PCI e in particolare con il suo programma economico, emergono abbastanza chiaramente quali sono i punti di differenza: le politiche anti-inflattive e la spesa pubblica. Mentre nella cultura socialdemocratica le politiche di bilancio sono saldamente ancorate ad una idea di cogestione dell’impresa, al valore della produttività e alla buona gestione delle risorse pubbliche, in Italia ogni scelta di intervento a favore delle classi lavoratrici – anche qui un patto non scritto con la DC? – è stata sostenuta scaricando i costi sul bilancio dello Stato.
Non possiamo imputare al PCI le colpe per l’esorbitante debito pubblico italiano, per il solo fatto che fino al 1996 non ha espresso un solo ministro della repubblica. Le responsabilità sono dei governi a guida DC e – bisogna dirlo – in particolare dei governi di centrosinistra della seconda metà degli anni 80. Ma il PCI non capì mai fino in fondo il pericolo insito in una politica economica costruita sull’inflazione a doppia cifra e un debito pubblico esorbitante. Di conseguenza anche le esperienze di welfare costruite dalle giunte locali di sinistra, per quanto esempio di buona amministrazione, sono sempre a monte il frutto di una spesa pubblica rivelatasi anni dopo fuori controllo.
“Questa confutazione ‘sul campo’ della presunta inconciliabilità tra welfare e bassa inflazione – affermano Paggi e D’Angelillo – avviene grazie alla costruzione da parte delle socialdemocrazie di un meccanismo di trade-off con il sindacato, che scambia la moderazione sindacale con effetti favorevoli sulla dinamica dei prezzi, con la piena occupazione e le riforme”. In Italia il timido tentativo condotto durante il periodo dell’Unità nazionale (1976-79) di avviare una “politica di austerità” si scontrò con una vera e propria rivolta sindacale (ricordiamo lo sciopero generale dei metalmeccanici del 2 dicembre 1977) e con la retorica della lotta all’inflazione della DC e delle forze moderate.
Vi è quindi una ragione più profonda che frena il PCI verso la scelta socialdemocratica, rappresentata dal suo stesso blocco sociale di riferimento, dal peso delle organizzazioni intermedie, in primis il sindacato, e soprattutto da una politica economica disattenta nei confronti di temi come la produttività e la competitività del nostro sistema produttivo. Insomma manca – e manca perché mai nessuno ha pensato di proporla – una “Bad Godesberg” italiana, e cioè una svolta radicale rispetto a quei concetti di fondo – soprattutto in materia economica – che hanno mantenuto un filo di continuità con la cultura marxista e una certa idea del conflitto sociale.
Questo è ancora più vero se si guarda in profondità all’esperienza delle giunte di sinistra nelle Regioni rosse, tra l’altro tema oggi di così grande attualità e ancora al centro di un attacco culturale della destra in seguito ai danni dell’alluvione in Romagna. Il modello costruito negli anni 70 è praticamente opposto a quello preferito dalle socialdemocrazie in Europa. Il PCI sceglie come interlocutore privilegiato dello sviluppo il sistema della piccola e media impresa, molto più flessibile e decentrata della grande impresa, ma anche meno sindacalizzata, afflitta da problemi cronici come l’accesso al credito, spesso destinata alla dispersione nella fase di ricambio generazionale. La crisi di quel modello sul finire del secolo ha trascinato con sé le certezze del modello tosco-emiliano, alimentato la crisi della cooperazione, provocato l’abbassamento degli standard nei servizi, complicato la relazione con le generazioni più giovani.
Tutto questo discorso vuole sostanzialmente contestare la tesi – abbastanza auto-assolutoria – che tutto sommato il PCI era già un partito socialdemocratico. Non lo è mai stato. Ed a ulteriore dimostrazione di quanto fosse distante da un’autentica cultura socialista democratica, quando è arrivato il momento di aprirsi ad altre culture riformiste (dalla nascita del PDS fino alla costituzione del PD) ha preferito dialogare con quelle provenienti dal mondo cattolico e dalla stessa DC piuttosto che misurarsi con le proprie origini e fare i conti con la cultura riformista socialista. Ma questo argomento ci introduce già in un altro discorso, che riguarda la nascita del PD e la priorità data all’intesa con la Margherita, quando riemerge quel filo rosso che lega la politica del compromesso storico all’accordo con la sinistra democristiana, con tutte le conseguenze del caso. È materia per un ulteriore approfondimento, da trattare con molta attenzione.
(3 – continua)
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