Immaginate questa scena all’inizio della nostra storia: ci sono Achille Occhetto e Claudio Petruccioli che osservano con aria preoccupata due bozzetti posti l’uno accanto all’altro sulla scrivania. Nella stanza che era stata di Togliatti e poi di Longo e Berlinguer, i due giovani leader erano di fronte ad una scelta impegnativa. Da qualche mese, a partire da quel terribile autunno del 1989, avevano dato inizio allo strappo più difficile della loro vita, avevano con coraggio rotto il tabù del simbolo e del nome e avviato il processo di pensionamento del glorioso Partito comunista.
I due bozzetti sulla scrivania corrispondevano a due ipotesi alternative, le proposte preparate in gran segreto dai grafici della commissione stampa e propaganda contenevano due linee politiche ben precise. Ora bisognava scegliere, e nome e simbolo del nuovo partito x avrebbero dovuto spiegare bene il senso di quella decisione.
Dopo poche ore, Occhetto si presentò in una delle più affollate conferenze stampa della sua vita con il nuovo simbolo, una enorme quercia con sotto la scritta “Partito democratico della sinistra”. Fu questa la prima decisione che spinse il nuovo partito della sinistra italiana, nato dallo scioglimento del vecchio Pci, fuori dal solco della grande tradizione della socialdemocrazia europea. A nulla erano valsi i tentativi dei dirigenti della componente migliorista guidata da Giorgio Napolitano e Gerardo Chiaromonte, che fino alla fine implorano Occhetto di inserire nel nuovo simbolo un riferimento chiaro al “socialismo europeo”, o almeno un richiamo al “lavoro” e ai “lavoratori”, come usavano fare i grandi partiti laburisti. La scelta di Occhetto cadde sul simbolo più generico e apparve subito una presa di distanze dagli altri partiti della sinistra europea.
La decisione aveva al contrario convinto i quadri più giovani del partito (da D’Alema a Veltroni), cresciuti nel culto della diversità, nella convinzione che era possibile tenere insieme più cose se si era allo stesso tempo critici verso Mosca ma ugualmente distanti dai partiti socialisti e socialdemocratici raccolti nella gloriosa Internazionale Socialista. Storia importante, certo, ma ancora saldamente presidiata da Bettino Craxi e dal suo Partito socialista. Essi pensavano che la scelta avrebbe aiutato – questa fu l’illusione del momento – a tenere unito il partito ed a evitare una pericolosa scissione a sinistra. Scissione che maturò di lì a qualche mese con la nascita di Rifondazione Comunista.
Il tema di una mancata adesione alla grande famiglia socialista europea si ripropose anche all’atto della costituzione del Pd, nel 2007. Paradossalmente fu proprio l’incontro tra l’anima più critica del vecchio Pci verso le forze riformiste e socialiste e le forze di matrice cattolica provenienti dalla Margherita a sancire una nuova linea di demarcazione. Come si può dare risalto ad una componente come quella rappresentata dagli ex democristiani se il Pd finisce tra le file dei socialisti europei? Altro rinvio, altre perdite di tempo. Bisogna attendere l’arrivo di Matteo Renzi a segretario del Pd nel 2014 affinché qualcuno si prendesse la responsabilità di far cadere questa inspiegabile distinzione e procedere all’adesione formale al Partito socialista europeo. Vale la pena ricordare che questa decisione coincise con la straripante vittoria del Pd alle europee dello stesso anno, con il record storico del 41% dei voti.
Inutile dire che ancora oggi se si chiede a qualche dirigente del Pd quale sia la reale collocazione internazionale del partito si è costretti ad ascoltare tortuosi giri di parole. Del resto, nessun partito socialista e socialdemocratico europeo ha indicato chiaramente nel nome e nel simbolo la propria appartenenza e la propria missione. Infatti, cosa indica quel generico “partito democratico”? Da dove si evince quale sia la missione per cui si è nati e per cui si lavora?
Forse la prima cosa da fare è risolvere questa annosa faccenda, chiudere con chiarezza quel percorso che in oltre 30 anni non ha ancora trovato il suo naturale punto di approdo. Tra le tante soluzioni c’è quella più semplice e naturale, quella di diventare a tutti gli effetti il partito socialdemocratico italiano, rendendo esplicita la sua vocazione a rappresentare i lavoratori e le lavoratrici, aggiungendo in qualche modo la natura di “partito del lavoro” nel proprio marchio.
La seconda questione, collegata alla prima, riguarda la natura della forma partito. Una riforma abbastanza importante dello statuto del Pd in realtà c’è già stata. Nessuno se n’è accorto, ma durante la gestione Zingaretti si è messo mano a diverse parti dello statuto. In particolare è stato deciso che non ci saranno più – elezione del segretario nazionale a parte – le primarie per scegliere dirigenti ed eletti di ogni ordine e grado e che questo potere ritorni in mano agli iscritti. Iscritti che però devono aderire al partito attraverso un percorso (rigidamente online) che ne assicura l’adesione individuale e impedisce di fatto l’acquisto di pacchetti di tessere.
Sono scelte che hanno cambiano in profondità il partito che abbiamo conosciuto in questi anni, sottraendolo alle scorribande di gruppi di potere locali, forti economicamente e organizzativamente. In altre parole, il Pd non è più contendibile dall’esterno. Come questa riforma sarà interpretata nei prossimi mesi lo vedremo concretamente. Senza dubbio la nuova struttura del partito dovrà dimostrare di essere in grado di riattivare un canale di partecipazione legato al tesseramento e gran parte della base decisionale potrebbe cambiare radicalmente in queste settimane (la chiusura dei termini per le nuove iscrizioni dovrebbe coincidere con la fine dell’anno).
Riuscirà un partito così chiuso a stabilire canali di partecipazione e dare voce ad un protagonismo politico moderno? Non ha molto senso immaginare ancora un modello organizzativo legato ad una diffusa rete di circoli territoriali se poi non si riesce a massimizzare le opportunità offerte dalle piattaforme digitali. Da questo punto di vista dovrebbe trovare con più coraggio attuazione un progetto di partito fortemente orientato a sviluppare la propria fisionomia digitale. Un vecchio tema che ora trova concreta possibilità di attuazione, soprattutto rispetto ad interi settori di pezzi di società in cui il partito deve ricostruire la sua presenza.
Infine vi è da affrontare un serio problema comunicativo. Senza propri strumenti di lavoro e lontani per cultura dalla vita dei social network il Pd dovrebbe operare una scelta più netta di comunicazione alternativa. Inutile insistere a scopiazzare altri modelli, o decidere se sbarcare o meno su TikTok. Il punto è essere comunicativi e in grado di utilizzare al meglio la multicanalità. E questa scelta non potrà trovare attuazione senza quel salto generazionale del gruppo dirigente, da più parti evocato.
Il punto ora è provare a misurarsi di nuovo con i problemi di una società che non cresce e non produce ricchezze da distribuire. Come ricordava di recente Michele Salvati, uno degli intellettuali più impegnati negli anni a sostenere la via socialdemocratica, “non bisogna perdere di vista il motivo principale della crisi italiana, una società ferma da anni”. E rimettere in moto l’Italia sarebbe la condizione minima per attivare nuove politiche di welfare. “Bernstein incitava a credere che ‘il movimento è tutto’, solo lo sviluppo crea la ricchezza da redistribuire”, ricorda il filosofo riformista. Il malcontento italiano è conseguenza del malessere di una società che non cresce, non produce più come una volta, anzi sta morendo.
Questo binomio – lavoro e sviluppo – devono trovare nel nuovo Pd il partito di riferimento. Semplice a dirsi ma complicato a farsi. Soprattutto se si perde il contatto con la realtà. Imprese e categorie devono trovare interlocuzioni istituzionali corrette con il nuovo partito, non scorciatoie lobbistiche.
Ma alla fine tutto questo parlare della forma-partito (o della forma che esso dovrebbe assumere) non ha molto senso se non la si guarda da uno specifico punto di vista: la selezione della classe dirigente.
Ora al Pd restano solo due strade: questa nuova classe dirigente o la formi, cioè dedichi anni e mezzi alla sua formazione, o la trovi. Per trovarla devi cercarla, fare scouting, avere cercatori di teste affidabili, criteri di selezione seri e meritocratici.
Non credo che il Pd abbia voglia e mezzi per mettersi a formare la sua classe dirigente. Ci sono encomiabili tentativi, tra questi sicuramente merita una citazione la “scuola di politica” creata da Enrico Letta e ora gestita da Alessia Mosca, che in 10 anni ha selezionato oltre mille giovani. La selezione principale dovrebbe puntare a “trovare” una classe dirigente, convincere persone capaci ad occuparsi di politica, disporre di una rete di “osservatori” sui campi di provincia, come avviene nel calcio, promuovere format alla “X factor”, che cerca ogni anno promettenti cantanti, affidarsi ad headhunter per trovare talenti, come fanno le aziende, soprattutto straniere, che si prendono i nostri migliori ragazzi. Ecco, più che riaprire i portoni di una improbabile “nuova Frattocchie” punterei ad investire su un moderno canale di reclutamento.
Resta l’ultima fatidica domanda: ma ci sono persone che vogliono ancora dedicare parte del loro tempo alla politica? Esiste ancora la possibilità che persone normali decidano di dedicare il loro tempo alle sorti della sinistra nel nostro Paese?
Io credo proprio di sì. Quello che bisogna rompere è il modello della politica per professionisti, fatta di “sangue e merda”, dove infedeltà e tradimento sono accettati come condizioni per partecipare al gioco. In questo senso un partito in grado di assumere le sembianze di una organizzazione seria, con poche regole ma rispettate da tutti, con sani principi che sono da considerare inviolabili, dove i comportamenti e la coerenza personale contano qualcosa, rappresenterebbe una novità che manca nel panorama italiano di oggi. Il partito dei migliori e dei giusti, non il partito dei primi della classe e degli arroganti, il partito dove si è scelti non imposti. Un partito-strumento per l’emancipazione delle classi svantaggiate e dei soggetti più deboli, non l’arma di conservazione del potere dei ceti dominanti. Parole antiche che potrebbero ritrovare un senso nella società italiana del XXI secolo.
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