Cercavamo dunque una via diversa, la “via italiana” al socialismo. Chi ha visto il recente film su Enrico Berlinguer, ha potuto trarne un’immagine precisa durante il comizio di chiusura della festa dell’Unità di Napoli del 1976. È proprio in quell’occasione che lo storico segretario del PCI ribadisce la sua idea di “compromesso storico”, cioè la volontà di indicare una strada nuova, qualcosa di diverso tra la via sovietica al potere e la socialdemocrazia. Con spirito messianico e scandendo le parole ad una ad una, al milione di persone accorso alla Mostra d’Oltremare ad ascoltarlo in una domenica assolata di settembre, chiarisce che esiste “una terza via al socialismo”. Lui la indica e la persegue. Era chiaro in quel momento, sia a lui che a chi lo stava ascoltando, che l’obiettivo non cambiava – il socialismo –, cambiava solo il modo di raggiungerlo.



È proprio l’obiettivo, se vogliamo essere pratici, che ci siamo persi per strada, mentre è continuata ad esistere questa idea di una “via diversa”. In sintesi, le cose sono andate pressappoco così: nel paese di Machiavelli, dove da piccoli ci spiegavano che “il fine giustifica i mezzi”, ci siamo persi il “fine” e siamo rimasti a parlare dei “mezzi”. Ci siamo innamorati di tutto ciò che era la via da percorrere, la tattica, le alleanze, la conoscenza del potere, la politica come professione, come fare in modo che il sistema ci accettasse, per poi dimenticare la ragione di fondo che aveva dato origine al tutto, l’idea di una società socialista.



In questi giorni molti anziani, ex giovani di sinistra, stanno andando a vedere quel film su Berlinguer, scritto, diretto ed interpretato da giovani che non hanno neanche fatto in tempo a essere nati quando lui è morto. Di cosa è successo in quegli anni ce ne siamo occupati a lungo in questa serie di articoli di approfondimento, perché Berlinguer ha un ruolo centrale in questa storia, sia prima, come acceso oppositore ad ogni svolta riformista e socialdemocratica del suo partito, sia dopo, condizionando i suoi “eredi” per molti anni fino ad oggi. Potremmo dire che il suo è stato principalmente un ruolo di “formazione”. Colpisce però come questi giovani autori abbiano saputo cogliere l’essenziale: Berlinguer credeva nel socialismo, i suoi eredi no.



Quando questa parola è diventata così invisa alla sinistra italiana? Quando è successo che per conformismo, snobismo, ipocrisia, si è accettato di non parlare più di socialismo? Oggi appare tutto più chiaro: aver lasciato che la parola “riformismo” sostituisse quella più obsoleta di “socialismo”, considerandola più ampia e sicuramente più “cool”, è stata un’operazione ingannevole e opportunistica. Ma riuscita. La sostituzione ha funzionato: oggi molti credono che abbiano lo stesso significato, che stiamo parlando di due sinonimi. Ma non è così.

La perdita di un riferimento esplicito al socialismo democratico ha avuto e ha molte conseguenze, sul piano teorico e su quello pratico. Gran parte delle scelte di politica economica, ad esempio, hanno via via perso ogni ancoraggio ad un’idea dei rapporti di forza tra le classi nella società moderna. Un tema che è stato addirittura ridicolizzato, come se non esistesse più una lotta per la redistribuzione della ricchezza e sui diritti. La perdita del riferimento ad una visione socialista è alla base di un progressivo e inesorabile abbandono di obiettivi sociali a tutela delle classi più deboli, a cui non restava che essere destinatari “automatici” di un generico beneficio derivante da società sempre più ricche e forti economicamente.

L’onda liberista che ha segnato la vicenda mondiale dagli anni 80 in poi, e il crollo dei regimi comunisti legali all’Unione Sovietica, hanno via via fatto breccia nella cultura politica della sinistra italiana, spinta a rinunciare, in nome della necessaria legittimazione a governare, ai capisaldi di una politica economica socialista. Ovviamente la classe operaia non ha più il peso quantitativo che aveva ai tempi di Berlinguer, ma se oggi quello che resta dei lavoratori vota a destra ci sarà pure un motivo. Questo non è successo negli altri Paesi europei, dove i partiti socialisti e laburisti, che pure hanno avuto leader innovatori come Blair, non hanno ancora oggi perso il loro radicamento nei settori più popolari e tra gli operai delle manifatture.

Parallelamente la perdita di un orizzonte culturale ed ideale ha via via annientato il sistema dei corpi intermedi. Esemplare è la vicenda del movimento cooperativo, che subisce nel corso di quegli anni una trasformazione profonda, tesa a staccarsi dalla ultracentenaria relazione politica con il principale partito politico di riferimento per intraprendere una strada che lo ha trasformato in un soggetto economico simile ad altri, lasciando sul campo – ancora oggi – migliaia di vittime, conseguenze di centinaia di cooperative fallite, smembrate, passate di mano.

Ma così è successo anche per il sindacato, le grandi organizzazioni professionali degli artigiani, dei contadini, degli insegnanti, via via dismesse e abbandonate al loro destino. Isolate, derise per la loro irrilevanza, sono state considerate piccole enclave destinate a essere spazzate via dalla modernità. Ma tutto questo ha avuto una conseguenza enorme, si sono spezzati i fili necessari per capire la società, dialogare con essa, percepire in profondità umori e opinioni. Da dove nasce lo scollamento di un gruppo dirigente se non dalla pretesa di non dover perdere tempo nell’esercitare il suo ruolo attraverso un sistema partecipativo organizzato? Comodo, sicuramente meno faticoso, ma devastante sul piano politico.

Poi ci si chiede da dove nascono i signori dei voti e delle tessere. Da questo enorme vuoto lasciato da una grande organizzazione politica e sociale che aveva al suo centro un ideale di società, la ricerca di soluzioni condivise, l’idea dell’eguaglianza e di reali opportunità per tutti. Non è questa la sede per discutere di socialismo, ma sicuramente è il momento di ricordare che senza quella prospettiva la sinistra non riuscirà a dare fiducia alle persone, fiducia in un futuro diverso dalla condizione attuale.

L’assenza di questa componente è oggi la malattia della sinistra. Non la visione a breve, ma la capacità di competere sul futuro di una società, mettendo dei paletti, salvaguardando dei princìpi. Non è l’assenza di un programma che condanna la sinistra ad una condizione minoritaria, ma l’assenza di un respiro ideale che spinga le persone a intraprendere un percorso condiviso, ad impegnare il proprio tempo, a combattere per una giusta causa. E questa non può che essere il rispetto dei diritti della persona e dei lavoratori, la difesa dei più deboli e il miglioramento delle condizioni di vita di chi ha di meno, per la casa, per la scuola, per la sanità, per la vecchiaia. Questo fino al secolo scorso aveva un nome preciso, socialismo.

Colpisce che la più importante parola del secolo scorso, socialismo, abbia la radice in comune con la più importante parola del XXI secolo, “i social”. Mi chiedo da tempo che tipo di connessione potrà mai esserci. Sicuramente i social stanno cambiando il mondo più velocemente di quanto le classi dirigenti ci stanno mettendo a capirli. In ogni caso vi sono diversi punti in comune, come il diritto alla contro-informazione, indipendente e autonoma. Il diritto di contestare quella che appare come la verità imposta dai potenti, in ogni campo. Addirittura, in quello scientifico. Insomma, i social sono lo strumento per affermare che esiste un’altra verità.

Ma i social sono, come lo è stato la politica per tutto il Novecento, un nuovo ascensore sociale, che consente di scovare e selezionare nuovi talenti, affermare nuovi stili di vita, far emergere capacità nascoste in ogni campo, piccole e grandi comunità altrimenti senza voce. C’è qualcosa in comune tra quello che è stato il movimento socialista e il movimento dei “social”, che dimostra l’impossibilità di comprimere un bisogno di cambiamento. A partire dalla propria condizione economica e sociale, si vuol far valere un punto di vista diverso, strumento di organizzazione contro chi comanda.

Insomma, serve una visione del mondo senza la quale la sinistra non potrà tornare a guidare le persone. Prendo a tal proposito in prestito le parole molto efficaci usate da Massimo D’Alema a conclusione di un serrato confronto “sul PCI” svolto nel dicembre del 2020, a cento anni dalla sua nascita, nella sede di Italianieuropei con interlocutori di tutto rispetto come Luciana Castellina, Emanuele Macaluso, Achille Occhetto, Silvio Pons, Aldo Tortorella. “Proprio nel momento in cui a sinistra è avvenuto questo enorme disarmo delle idee – afferma l’ex premier – la destra ha invece riscoperto la forza dell’ideologia, ed è tornata a essere protagonista perché di fronte allo spaesamento prodotto dalla globalizzazione ha rimesso in campo idee forti, come quella della terra, del sangue, dell’identità”.

Come rispondere a questo ritorno dell’ideologia? “Certo la soluzione non può essere riproporre il mito del comunismo; tuttavia, l’abbandono della prospettiva ideologica della “fuoriuscita” dal capitalismo non significa rinunciare – conclude D’Alema – a una cultura critica del capitalismo attuale, delle diseguaglianze, delle ingiustizie e delle contraddizioni che esso produce. Di fronte a questo non basta l’idea di un riformismo come ingegneria sociale, occorre una visione del mondo, un’idea di futuro”.

Siamo nel 2020 e D’Alema ancora non riesce a pronunciare le parole “socialismo” e “socialdemocrazia”, che poi sono la risposta più semplice e diretta alle sue domande. Capisco la critica al riformismo come pura ingegneria e tecnica con cui stabilire cosa è giusto o sbagliato fare quando si governa. Ma perché allora non definirsi “socialisti”? Eppure egli ha avuto modo per molti anni di frequentare i partiti socialisti e laburisti di tutto il mondo per sapere che nessuno di questi ha rinunciato a definirsi “socialisti”, e nessuno di questi è considerato un vecchio arnese della storia. Anzi, molti di essi godono di ottima salute e governano in molti Paesi e raggiungono ogni giorno risultati considerevoli nell’azione di cambiamento delle loro società.

Allora, che fare, ora che sembra riprendere, più forte di prima, il vento conservatore e liberista, con la destra che ritorna al comando della principale potenza mondiale mentre in Europa e nel mondo la democrazia langue? Provo a rispondere con le lucide parole di uno dei padri del socialismo democratico europeo, Olof Palme, ucciso 40 anni fa nel centro di Stoccolma per mano di un killer rimasto ancora sconosciuto, pronunciate in uno dei suoi ultimi comizi: “ci troviamo di nuovo di fronte alla stessa problematica. Le differenze di reddito minacciano di ingrandirsi. È in corso un enorme processo di trasferimento della popolazione e di concentrazione di capitale e uomini. Lavoratori perdono il loro posto di lavoro. Il nostro ambiente è minacciato da una crescente distruzione”.

La lucida analisi del leader svedese continua: “Questi sono problemi essenziali della nostra vita di ogni giorno che possono generare facilmente un senso di insicurezza nel futuro. Nel caso che la democrazia non riesca a risolverli, esiste il pericolo dell’anarchia, il pericolo che si sviluppi una coscienza elitaria o che forze antidemocratiche si impadroniscono del potere. È necessario ravvivare e rinnovare la democrazia alla base. La struttura decisionale democratica corre il rischio di disgregarsi: in seguito alla trasformazione tecnologica, alla concentrazione economica, al rapido trasferimento della popolazione, alla lentezza burocratica. Lo sviluppo della democrazia diventa la questione centrale”. Parole di grande attualità, potremo definirle preveggenti. Non c’è in lui una visione catastrofista, anzi, Palme traeva ottimismo dalla convinzione che il socialismo potesse offrire le soluzioni necessarie.

“In Europa il socialismo democratico ha le sue radici nell’etica cristiana, nell’umanesimo e nella filosofia classica. Ma l’uomo vive in primo luogo i problemi di ogni giorno. Una idea astratta da sola non è sufficiente per un impegno. Si deve chiarire il nesso tra idee e problemi pratici”. Poi concludeva così: “Il socialismo richiede come ideologia politica e filosofica forte impegno intellettuale. Ma nello stesso tempo è anche straordinariamente pratico. Possiamo conseguire in larga misura il collegamento tra la difficile teoria e il lavoro concreto tramite il dibattito democratico”. Utopia? Stiamo parlando di uno scenario improbabile? “Il possibile non verrebbe mai raggiunto nel mondo se non si ritentasse sempre l’impossibile”.

(5 – fine)

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