Elly Schlein ha espresso chiaramente il suo giudizio sul voto ligure parlando a circa 800 chilometri di distanza da Genova. Non è una battuta. Ottocento sono i chilometri che separano il capoluogo ligure dalla Campania. Perché la risposta agli interrogativi posti dalla sconfitta di lunedì è arrivata ieri dalla segretaria del Pd affrontando senza indugi l’annosa questione – che dura almeno da 20 anni – del ruolo di Vincenzo De Luca, che ha pensato bene di anticipare i tempi della sua ricandidatura.



Senza urlare e senza offendere nessuno, al contrario di come usa fare da tempo il cacicco, ha prima telefonato allo stesso Presidente campano, invitandolo a fermarsi, e poi ha partecipato in diretta a una riunione del gruppo dei consiglieri regionali del Pd, ricordando loro la linea del partito contraria al terzo mandato. Nessuna minaccia, ma chi vota diversamente è fuori. In primis dalle liste. Di un partito che è tornato a veleggiare oltre il 25%. E per far capire ai suoi che sta facendo sul serio ha contemporaneamente prolungato il commissariamento del comitato regionale della Campania per altri sei mesi.



La vicenda campana ha precisi risvolti nazionali. Lo scontro con De Luca sottintende un accordo di ferro con il Movimento 5 Stelle. Considerato il sindaco Manfredi inamovibile da Napoli e con molta probabilità destinato al nuovo incarico di presidente dell’Anci, la candidatura regionale toccherà inevitabilmente a una delle figure storiche del Movimento, come l’ex presidente della camera Fico o l’ex ministro Costa. Sarà in Campania e con un loro candidato che dovranno dimostrare di saper conservare il consistente bagaglio di voti di cui dispongono. Ma la Campania sarà un banco di prova difficile anche per Renzi, da sempre fiero sostenitore di De Luca.



Non credo che la Segretaria del Pd potesse essere più esplicita di così su cosa intende fare dopo il voto della Liguria. A una settimana dalla sconfitta le cose si stanno facendo decisamente più chiare. Lo stesso Andrea Orlando non ne ha fatto un dramma, e non ha cercato capri espiatori. Non è corretto ora dire che preferiva che le cose andassero così, ma in fin dei conti si è risparmiato di fare per 10 anni il Presidente di una regione importante ma non certo decisiva, e allo stesso tempo ha portato a casa un discreto credito grazie a una battaglia condotta con generosità e che lo ha rilanciato come leader di partito (è sempre capo di una delle correnti più importanti del Pd). Torna nella riserva dei “padri della patria” a disposizione per futuri incarichi istituzionali.

Per di più è di Orlando il merito di due cose molto importanti: il successo di lista del Pd che supera il 28% e ridiventa primo partito (un risultato che mancava da anni in una regione del nord) e soprattutto la vittoria schiacciante a Genova (+13% sul Sindaco uscente) che rende concreta la prospettiva di riconquistare la guida della città tra pochi mesi.

Paradossalmente, al vincitore Bucci, dopo i festeggiamenti, rimangono i problemi. Gli tocca in sorte la perdita della città che ha  governato per 8 anni, una coalizione ancora intossicata dei veleni del dopo-Toti e l’appoggio determinante di Scajola, un signore che a Imperia ha fatto la differenza e ora si aspetta “riconoscenza”. Certo, la vicenda giudiziaria che ha aperto la crisi e ha portato alle elezioni è risultata ininfluente, per aver prodotto un risultato diverso dalle attese. Ma questo è un bene per tutti, Pd compreso.

Per la sconfitta del centrosinistra in Liguria è risultato determinate il tracollo del Movimento 5 stelle. Non ha giovato il deflagrare dello scontro Conte-Grillo tre giorni prima del voto. Ma la crisi del Movimento è un fatto strutturale che non è più ascrivibile a quella scelta o vicenda particolare. La sorte dei movimenti populisti di sinistra in Europa sembra segnata e ovunque sono riassorbiti dai partiti storici, come sta accadendo ad esempio con Podemos in Spagna. Non si vede perché in Italia le cose dovrebbero andare diversamente, considerato che qui da noi il Pd ha oggi un più forte connotato di partito di opposizione e di sinistra, grazie al quale ha la possibilità di recuperare gran parte del proprio elettorato perso negli anni dell’espansione grillina.

Il punto, si dice, è  la mancanza di una strategia per conquistare il centro. Ma anche su questo fronte le cose sembrano tendere a una ricomposizione con quei partiti che hanno vissuto l’avventura solitaria alle europee. Le alleanze, ma soprattutto gli elettori, non si spostano con un colpo di bacchetta magica. Quello che ora è assodato – e non cambierà a breve – è la guida della coalizione saldamente nelle mani del Pd e della sua giovane leader, che con il tempo sta rivelando particolari doti: determinata, concreta, moderna e di sinistra, ma per nulla settaria. Si vedrà ora il risultato in Umbria e in Emilia Romagna, ma Elly Schlein non dimostra di avere ansie da prestazione.

A suo favore gioca una fase abbastanza difficile della maggioranza che rischia di vedere alcuni dei suoi principali obiettivi – come la finanziaria senza risorse e le riforme istituzionali – finire su un binario morto. Ma sono tutti in attesa di qualcos’altro. Il 2024 si concluderà con il voto decisivo per il nuovo Presidente degli Stati Uniti, e sarà questo il risultato che peserà di più anche nelle nostre vicende nazionali.

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