Un presidente affranto, quasi spezzato in due, quello che si è presentato alla conferenza stampa dopo la strage provocata dall’Isis all’aeroporto di Kabul, in cui hanno perso la vita anche tredici soldati americani, “la cosa che Biden voleva evitare di più”, ci ha detto Andrew Spannaus, giornalista e opinionista americano, fondatore di Transatlantico.info in questa intervista.



Un attentato che ha dato il colpo definitivo al fallimento dell’esperienza americana in Afghanistan, e che segna, ci ha detto ancora Spannaus, “la fine di un’epoca storica per gli Stati Uniti, quella dell’interventismo sul territorio di altre nazioni”. Ma non per questo, dice, “bisogna pensare che l’America da oggi in poi si ritirerà dentro se stessa. Rimane aperto il confronto con la Cina ad esempio, che sarà portato avanti senza interventi militari”.



Nel suo discorso dopo l’attentato il presidente americano Joe Biden ha parlato di ritorsioni, della volontà di rispondere con forza e precisione a tempo debito. Gli Stati Uniti sono di nuovo in guerra?

Sono dichiarazioni obbligatorie di fronte all’attentato che crea grossi problemi per Biden, il cui obiettivo di un’operazione seppur pasticciata era di evitare vittime tra i soldati americani. Gli Usa sicuramente continueranno la guerra contro l’Isis attraverso droni, forze speciali, operazioni coperte. Lavoreranno per contrastare l’Isis in questo modo, senza il supporto di basi in Afghanistan. Il problema è che operazioni di questo tipo sono esattamente ciò che hanno creato problemi agli Stati Uniti nell’arco di vent’anni.



Perché?

Perché creano grossi rischi ai civili, come successo tante volte, cosa che ha generato mancanza di sostegno tra gli afgani verso gli americani. Adesso che però che non c’è più il problema di mantenere il controllo del territorio, l’America probabilmente si sentirà più libera di fare attacchi di questo tipo.

L’Isis rappresenta un problema anche per i talebani.

L’Isis ha combattuto contro i talebani, li considera troppo moderati. Va detto che in questa fase, anche se è brutto dirlo, è chiaro che Stati Uniti e talebani stanno collaborando a una certo livello.

Quale?

I talebani non impediscono agli americani di andare via, proteggono in parte l’aeroporto perché hanno interesse che vadano via. Quando si tratta di afgani è più complicato, permettono ad alcuni di andare via, ma è ovvio che più si va avanti e più è imbarazzante per loro che gli afgani vogliano lasciare il paese.

Secondo lei è possibile che Stati Uniti e talebani possano collaborare anche nella lotta all’Isis?

Questa sarebbe un’interessante novità. Potrebbe accadere tramite la collaborazione di un altro paese, penso alla Russia, che ha avuto un ruolo importante e decisivo contro l’Isis nel Medio oriente. 

Tornando a Biden, ha difeso ancora la decisione di ritirare le truppe americane. Sicuramente il ritiro sta avvenendo in modo poco brillante, ma è giusto incolparlo di tutto? Ci si dimentica che alla base di quanto sta accadendo ci sono gli accordi presi da Trump a Doha con i talebani senza neanche consultare la Nato.

Le critiche a Biden sono spesso contraddittorie. Biden ha fatto una scelta quasi obbligata a livello politico. La popolazione americana non vuole che si rimanga in Afghanistan e appoggia il ritiro. Le ultime settimane sono state gestite molto male, ma la colpa è di chi credeva che l’esercito afgano potesse resistere. L’intelligence e le forze armate americane non hanno dato il quadro preciso della situazione a Biden o lui non ha voluto saperne, come sostiene qualcuno.

Il quadro non è molto chiaro, è d’accordo?

È vero quanto Biden sostiene, quando dice che le sue scelte erano limitate. Rallentare il ritiro avrebbe probabilmente provocato attacchi dei talebani e questo avrebbe richiesto l’invio di altre truppe, cosa che lui voleva evitare. Gli accordi di Doha hanno senz’altro indebolito il governo e l’esercito afgano, come anche il ritiro delle forze americane ha avuto conseguenze dirette, e poi ci sono problemi interni di corruzione e di incapacità. Questo ha portato a un ponte logistico di evacuazione tutto sommato riuscito, perché 100mila persone evacuate in circa due settimane sono un successo. Chiaramente l’attentato ha reso tutto questo molto più dannoso a livello politico.

A livello politico, appunto, alcuni repubblicani chiedono addirittura le dimissioni immediate di Biden, altri l’impeachment. 

Sono cose che non c’entrano niente, pura politica. Anche se sono stati fatti degli errori, non ci sono elementi per l’impeachment.

Certo. Però è indubbio che l’immagine del presidente e della sua amministrazione escano danneggiate. Riusciranno a recuperare questo danno?

Al momento l’amministrazione Biden è colpita. Ma il presidente è convinto di dover difendere la sua decisione e fa bene a farlo, perché gli americani sono stanchi delle guerre degli ultimi vent’anni, che sono state disastrose a livello umano e finanziario considerando i problemi interni. Biden e i suoi pensano che i problemi passeranno e che il presidente recupererà i punti di popolarità persi nelle ultime settimane. È chiaro che l’attentato rende questo più difficile, perché dà un’arma ulteriore ai repubblicani, ma se riesce a completare l’evacuazione senza altri disastri penso che potrà in effetti riprendersi e concentrarsi sulla situazione interna, soprattutto sulla questione economica dove sta andando relativamente bene.

Resta in ballo il confronto con la Cina. Quanto peserà questa débâcle su questo e gli altri scenari di impegno internazionale americano?

Il ritiro americano rappresenta un cambiamento d’epoca. L’interventismo in Medio oriente, le guerre al terrorismo in termini di occupazione del territorio, sono un periodo storico definitivamente finito a causa di errori e politiche sbagliate. Pensiamo all’amministrazione Bush e al suo tentativo di invadere sette paesi per cambiare i loro regimi. Quest’epoca è finita. Però chi pensa che l’America si ritiri dentro se stessa sbaglia. L’America si concentrerà sullo scenario indo-pacifico e sul confronto con la Cina, non con gli interventi stile Medio oriente ma con una approccio di sfida fra grandi potenze. Non sarà una nuova guerra fredda, rimarrà la collaborazione in alcuni settori, ma cresceranno lo scontro strategico e i dubbi sui punti caldi e l’espansionismo cinese.

(Paolo Vites)

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