MINNEAPOLIS – Cosa vede, cosa sente, cosa sa l’America di quello che sta succedendo in Medio Oriente? Come vive questa drammatica situazione, quanto ne soffre e cosa spera? Come sta facendo i conti l’America con questa terribile, disumana escalation di violenza, questo barbaro succedersi di vendette e rappresaglie quando sul suo suolo, nelle nostre città siamo abituati a vedere ebrei e arabi tra le centinaia di etnie presenti e conviverci? Non sto parlando di Anthony Blinken, Secretary of State (pressappoco l’equivalente del ministro degli Esteri) e dell’amministrazione Biden. Guardo l’America dall’America. La guardo dal di dentro perché ci vivo e lo faccio da quasi trent’anni, e sono anche americano, con tanto di passaporto blue e diritto di voto. E vedo quel che vedo.
Cosa vedo? Vedo due Americhe reagire in maniera molto diversa. Vedo un’America divisa potremmo dire, tanto per usare un termine che da qualche anno in qua sembra il più adeguatamente descrittivo della condizione sociale e politica in cui il Paese si è cacciato. Ma non è solo questione di simpatizzare per una o per l’altra parte. Al di là dell’immediato shock provocato dai fatti del 7 ottobre, che ha accumunato tutti, si sono ben presto creati come due mondi: quello delle metropoli e quello del resto dell’Unione. Tenete conto che, numeri alla mano, dei 340 milioni che siamo, oltre 230 vivono tra mondo rurale e suburbano, un centinaio nelle grandi città. Tenete anche conto del fatto che dei circa 16 milioni di ebrei in giro per il mondo quasi 8 milioni (religiosi o meno che siano) vivono negli Stati Uniti. E forse saprete che quasi 2 milioni di questi vivono a New York City facendone il posto in cui si trovano più ebrei dopo Israele.
È difficile per noi “gentili” renderci conto della profondità della ferita mai cicatrizzata che questa nuova guerra ha riaperto, difficile rendersi conto del peso della memoria che i fatti del 7 ottobre hanno fatto riaffiorare. Difficile anche capire fino in fondo il dramma del popolo palestinese, perché non abbiamo mai vissuto nelle condizioni in cui vivono i palestinesi. Ma l’America rurale e suburbana dove né gli 8 milioni di ebrei, né i 3 milioni e mezzo di arabi vivono è l’America dove nessuno è sceso in strada per protestare e denunciare la brutalità altrui, è l’America che nella quotidianità della vita rivolge poco più di uno sguardo distratto alle notizie del mondo. Il kibbutz di Nir Oz e l’enclave di Gaza come l’Ucraina: lontane, sfiorate senza avvertirne il contraccolpo dopo il primo scossone emotivo.
E l’altro mondo, quello metropolitano dove ebrei e arabi vivono fianco a fianco nella quotidianità della vita? Rabbia, rancore, contrapposizione, che nasca dal sangue che scorre nelle vene o dallo schieramento ideologico, desiderio di vendetta. Violenza. Ma anche semplice dolore, angoscia per il presente ed il destino del proprio popolo e per i propri cari che si trovano nel mezzo della tempesta. Poi solidarietà e persino mobilitazione. Sono già qualche migliaio tra riservisti, personale medico e semplici volontari gli ebrei rientrati in Israele attraverso l’opera di un’organizzazione chiamata “Bulletproof Israel”. Così come tanti palestinesi si sono raccolti attorno alla canadese “Solidarity for Palestinian Human Rights”. Alla ricerca del bene, ma sempre fronteggiando un nemico. Due mondi e due sguardi che non bastano.
Così come non basta il nostro, noi che in fondo siamo spettatori di un dramma altrui. Ci vogliono uno sguardo più vigile e un cuore più grande perché ogni tentativo possa portare frutto. Come disse don Giussani a un carissimo amico che ci ha appena lasciati, “L’energia con cui si fanno le cose dipende dall’ampiezza dell’orizzonte che si tiene presente”. È di questo orizzonte più grande che abbiamo bisogno. God Bless America!
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