Se ci fosse necessità di verificare quanto il governo sia bloccato, basterebbe l’esempio del vertice di maggioranza convocato in tutta fretta domenica sera a Palazzo Chigi per decidere sulle correzioni al divieto di uscire dal proprio comune il giorno di Natale. Dopo il Mes, la cabina di regia sul Recovery Fund, le regole anti-Covid e le nomine, l’ennesimo capitolo di una lite continua.
Conte si è arenato. La sua strategia attendista ha mostrato la corda. A forza di rinvii, i nodi sono venuti al pettine tutti insieme. Lo stato di decomposizione della compagine di governo ha raggiunto un livello tale che non si può attendere gennaio per regolare i conti. Qualcosa deve essere fatto subito, mentre in parlamento si consuma stancamente e non senza problemi il rito della legge di bilancio. L’unica cosa che non si può fare è attendere ancora che tutto si sistemi magicamente, senza intervenire.
Il premier ha informato un sempre più preoccupato presidente della Repubblica che la verifica di governo comincerà questa settimana, prima incontri con i leaders delle forze di maggioranza, poi un confronto collegiale per tentare il rilancio.
A rischiare di più è proprio lui, il premier, finito sul banco degli imputati per aver voluto accentrare su di sé troppi poteri, dal controllo dei servizi segreti alle strutture parallele per gestire i fondi europei. A forza di creare task force la politica si è ribellata. Sbaglierebbe, però, chi lo vedesse già costretto a fare gli scatoloni. Conte ha ancora molte frecce al proprio arco, a patto che tenga ben stretto in mano il pallino della fase di rilancio del governo.
Dopo un momento in cui la caduta del governo sembrava ad un millimetro, la domenica ha segnato una frenata, almeno in apparenza. Tanto Zingaretti quanto Crimi hanno assicurato che una crisi al buio sarebbe da irresponsabili. Si tratta però di una frenata più apparente che reale. Di certo apre a Conte una finestra temporale per riprendere in mano l’iniziativa.
I due partiti maggiori che sostengono l’esecutivo sembrano, per ragioni differenti, divisi e balbettanti. Zingaretti deve decidere il da farsi, ma dal corpaccione democratico arrivano segnali di insoddisfazione montante, con svariati pezzi da novanta che scalpitano per entrare nell’esecutivo, specie per via della colossale torta da gestire.
Ancora più delicata la posizione dei 5 Stelle, deboli, divisi e in calo di consensi. Sono quelli che più hanno da perdere se si scivolasse verso il voto. Perdono però pezzi in continuazione (due o tre parlamentari a settimana). E quello che resta il vero leader grillino, Luigi Di Maio, è stato solleticato in questa fase da molti che gli hanno fatto balenare la possibilità di sedersi al posto di Conte.
Alla fine l’ago della bilancia è Renzi, le cui intenzioni rimangono imperscrutabili. Si rincorrono le voci persino di contatti con Salvini, nonostante quanto accaduto quindici mesi fa, quando l’ex premier indusse il leader della Lega a rompere, assicurandogli gioco di sponda per arrivare alle elezioni. Sono voci che hanno allarmato la Meloni, ma hanno sparso nervosismo anche fra i parlamentari di Italia Viva, timorosi di un bagno di sangue elettorale.
Siamo nella fase di massima confusione, gli scenari si accavallano. Il più soft vede la creazione di due vicepremier (Di Maio e Zingaretti), o addirittura di tre (anche Renzi), ma bisogna fare i conti con il limite di legge (già raggiunto) di 65 componenti l’esecutivo. Il Quirinale poi consentirebbe interventi limitatissimi sulla squadra (uno o due al massimo), ma solo davanti a volontarie dimissioni dei “rimpastandi”. E qualunque ipotesi di revisione più ampia della compagine ministeriale imporrebbe una nuova richiesta di fiducia al parlamento. Se si possa parlare, o no, di Conte 3, tutto dipende dalle dimensioni del rimpasto e dall’apertura o meno di una crisi formale.
Se poi dovesse variare il perimetro della maggioranza, la freddezza del Colle appare una certezza: sarebbe difficile avallare la terza coalizione sostanzialmente differente nel corso della stessa legislatura. Le prossime settimane vedranno una complicata partita a scacchi con molti giocatori. Le elezioni anticipate non le vuole (quasi) nessuno, ma rotolarci dentro per distrazione, o per un piccolo incidente è questione di un attimo. Basta ricordare quel che accadde al secondo governo Prodi nel 2008. A volte la storia si diverte a ripetersi.