Il dado è tratto. Il governo Draghi è arrivato a fine corsa, Mattarella ha sciolto le Camere. Resta però un interrogativo: le cose potevano andare diversamente? Corollario: chi ha sbagliato (o ha scelto di sbagliare)? Proviamo a fare un gioco dei se, anche se “con i se e con i ma la storia non si fa”, come recita un antico adagio.
Sediamoci idealmente davanti alla moviola (per i vecchi aficionados del pallone), se volete in una moderna sala Var, e vediamo al rallentatore i movimenti che hanno portato alla crisi di governo.
Primo dato che salta agli occhi: al termine di una confusa azione a centro campo, con tutti contro tutti, il governo scatta sulla fascia e piazza una richiesta a sorpresa: chiede la fiducia sul “decreto aiuti”, per vincere le resistenze del Movimento 5 Stelle sulla questione del termovalorizzatore da costruire a Roma. Alla moviola si rivela un fallo da rigore, perché è il vero momento in cui salta tutto. Deve essere sanzionato il premier per questa scelta, che appare inutilmente rigida rispetto al passato. Quando altri due partner della coalizione hanno mugugnato, la fiducia è stata evitata. È accaduto sul decreto green pass, indigesto per la Lega, e per la riforma Cartabia della giustizia, che Italia viva non aveva alcuna intenzione di votare. Rivista alla moviola questa azione fa pensare che si siano usati pesi e misure differenti. Che, in fondo, si cercasse l’incidente.
Nel prosieguo del gioco succede di tutto. Draghi sente quello strappo come insopportabile, e sale da Mattarella per dimettersi, ma viene rimandato in parlamento. Azione, questa, impeccabile anche dopo la revisione del Var. Nel frattempo i 5 Stelle si inalberano, poi si auto-paralizzano in un’interminabile discussione interna. Di fatto finiscono in panchina. Senza voto, si scriverebbe nelle pagelle del lunedì. Innesco della crisi, senza guadagnarci nulla. Se fossimo nell’inferno dantesco, sarebbero condannati al girone degli ignavi.
Ma c’è un’altra azione di Draghi che merita la moviola. È uno dei passaggi del suo discorso in Senato. È quando spiega di essere tornato in parlamento perché “a chiederlo sono soprattutto gli italiani”. Perché “la mobilitazione di questi giorni da parte di cittadini, associazioni, territori a favore della prosecuzione del governo è senza precedenti e impossibile da ignorare”. Parole pesantissime, che vanno di traverso a molti, forse persino al Quirinale. Legittimazione non attraverso il vaglio elettorale, ma grazie a una mobilitazione social? Fallo da rosso diretto, che è stato rilevato per primo da Pierferdinando Casini: “Voglio farle un appunto, presidente. Lei è qui oggi non solo perché gliel’hanno chiesto gli italiani: lei è qui perché non c’è stato un voto di sfiducia in Parlamento”.
È rispuntato in quel momento il Draghi che non è riuscito ad arrivare al Quirinale perché si è rifiutato di discutere con i partiti cosa sarebbe successo al governo e alla legislatura dopo la sua elezione al Colle. A Draghi l’Italia deve moltissimo. Deve una speranza ritrovata. Deve un rinnovato ruolo internazionale. Ma se si vuol fare i politici, con i politici bisogna dialogare. Non porsi in posizione dialettica, con parole che sono suonate a molti divisive e ostili.
Se si volesse continuare, altri falli andrebbero segnalati, commessi da altri giocatori, dalla Lega al Pd e a Forza Italia. Ma le due scelte di Draghi – la fiducia sul Dl Aiuti e le parole di troppo contro i partiti – pesano come macigni. Certo, la prosecuzione del governo non sarebbe stata facile, ma era possibile. Una maggiore comprensione delle esigenze dei partiti avrebbe potuto fare la differenza. Un approccio più politico, insomma, meno tecnocratico. Come scrivevamo, la storia non si fa con i se. Ma il finale davvero avrebbe potuto essere diverso.
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