Quando Mario Draghi ha ceduto alle insistenze di Sergio Mattarella e ha accettato di guidare il governo s’immaginava una navigazione tempestosa, ma probabilmente non fino a questo punto. Lo spirito unitario è durato sino al primo provvedimento serio, poi sul decreto sostegni lo scontro fra partiti alleati per necessità è violentemente venuto allo scoperto.



Il neo-segretario del Pd, Enrico Letta, sta continuando a lanciare messaggi identitari, dal voto ai sedicenni allo ius soli subito, e certo non agevola l’operato del premier. Il suo movimentismo include l’aver scelto Salvini come avversario preferito, e le polemiche succedute al varo del provvedimento da 32 miliardi atteso da due mesi hanno aggravato il quadro.



Il Pd in cerca di una nuova identità costituisce, quindi, la prima fonte di preoccupazione per Draghi. Per di più la fase di incertezza rischia di essere lunga. Di accompagnare il neonato esecutivo per mesi e mesi, visto che si è aperta una fase per ridisegnare gli equilibri interni a un partito che anche al Quirinale viene considerato l’architrave del quadro politico. È bastato ieri ipotizzare due capigruppo donna in parlamento per scatenare un vespaio. Il guaio è che Letta non può fare diversamente, deve dare segnali di discontinuità interni ed esterni. Non può limitarsi a fare il donatore di sangue al governo guidato dall’ex presidente della Bce se vuole rilanciare il centrosinistra.



Elementi di incertezza vengono aggiunti dalla fase travagliata che sta vivendo il Movimento 5 Stelle, dove l’incoronazione di Giuseppe Conte a nuovo leader viene rinviata di settimana in settimana, e con essa la definizione di una nuova identità. Impresa titanica, visto il clima di tutti contro tutti che si respira fra le schiere grilline. Di sicuro M5S è la formazione politica uscita peggio dalla crisi, ma rimane il gruppo di maggioranza relativa in Parlamento, e di questo Draghi non potrà che tener conto, smussando gli spigoli almeno sulle battaglie identitarie, come il reddito di cittadinanza o la delicatissima riforma della prescrizione, su cui lavora senza sosta la ministra Marta Cartabia, alla ricerca di un compromesso digeribile da tutti.

In apparenza gode di migliore salute la Lega, tornata al governo grazie all’azione coordinata di Salvini e di Giorgetti, due facce della stessa medaglia, abili a salire in velocità sul carro di Draghi, mentre il fronte giallorosso tentava in ogni modo di sabotare l’operazione. Ma per Salvini il problema che non sembra trovare soluzione è la fatica che la Lombardia sta facendo con il piano vaccinale, dove nemmeno l’ingresso in squadra di Letizia Moratti, dotata insieme di capacità manageriali e politiche, ha sin qui rimesso in carreggiata l’incerta macchina regionale. In più, l’attivismo del leader del Carroccio rischia di insinuarsi fin troppo negli spazi lasciati liberi dall’asciutta comunicazione istituzionale di Palazzo Chigi, con la possibilità di fare innervosire spesso i compagni di strada, quando non lo stesso premier.

Non è che sia più tranquilla la situazione fra le forze moderate, con Renzi in funzione di guastatore, che tenta un aggancio con Forza Italia non proprio agevole per ritagliarsi un ruolo che il permanere di questo sistema elettorale (o, ancor più, il ritorno al Mattarellum) sembra restringere sino ad annullarlo.

Ma per Draghi persino dall’Europa vengono preoccupazioni e delusioni: il disastro sulla gestione dell’approvvigionamento dei vaccino indebolisce Bruxelles. Se consegna al premier italiano un enorme spazio di manovra per riportare le priorità italiane al centro del dibattito comunitario, non gli offre quella sponda solida che lui si attendeva. Rischia di essere Palazzo Chigi a dover puntellare la Von der Leyen, e non viceversa.

Con la robusta copertura di Mattarella Draghi non ha altra via che andare avanti spedito. La doppia emergenza, sanitaria ed economica, questo richiede. Ma la velocità di crociera non potrà essere troppo elevata. Non tener conto della fase di profonda trasformazione che si è aperta un po’ per tutti i partiti sarebbe un errore grave. Nessuno da solo ha i voti per far cadere il governo. Ma per metterlo in difficoltà sì.

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