Sembra di essere tornati indietro di dieci anni: il 9 dicembre 2020 come il 10 dicembre 2010. Uno snodo della legislatura, o di qua o di là. Al centro della scena, oggi come allora, sta Silvio Berlusconi. Due lustri fa lottava (con successo) per mantenere la sua centralità. Oggi si muove felpato con l’obiettivo di ritrovarla.
Come qualunque crocevia della storia ci sono tanti disegni che si incrociano. Nel 2010 era la spallata di Gianfranco Fini che sosteneva un voto di sfiducia per scalzare il Cavaliere da Palazzo Chigi. Un tentativo fallito, 314 a 311. Oggi è la discussione sulla riforma del Mes il pomo della discordia, il terreno di scontro soprattutto il Senato, dove i numeri vacillano, come un decennio fa alla Camera.
C’è il sogno di Salvini e Meloni di far cadere il governo, c’è il disegno di Conte di durare. E ci sono i piani di Berlusconi e di Renzi per contare di più, che si intersecano con un Pd sempre più insofferente nei confronti del premier, da una parte, e di un alleato sfibrato come i 5 Stelle dall’altra.
Il ministro Franceschini, uno che continua a spingere per un’alleanza organica fra democratici e grillini, l’ha messa giù dura: in caso di incidente, crolla tutto. E sin qui le rassicurazioni venute dal tuttora capo politico Vito Crimi non sono sembrate particolarmente convincenti. Fra i grillini il malcontento è esploso con una lettera di 16 senatori e 54 deputati a sostegno del no alla riforma del Mes. Se succede, Conte deve dimettersi, fanno sapere dal Nazareno.
In casa pentastellata il lavorio di riduzione dell’area del dissenso è frenetico, e pare che qualche frutto lo stia dando. Potrebbero essere solo 6 i contrari fra i senatori. Non essendo necessaria la maggioranza assoluta, Conte potrebbe scamparla, anche se certificare di non avere 161 voti costituirebbe uno smacco politico pesante. Ancora di più se per raggiungere questa soglia fosse determinante un “soccorso azzurro” di berlusconiani, o ex di Forza Italia.
L’ex premier ha assunto una posizione in apparenza strana: no alla riforma del Mes delineata a Bruxelles, sì al ricorso a questi stessi fondi per sostenere il sistema sanitario. Una contraddizione apparente, che merita un approfondimento. L’idea che viene sussurrata da alcuni è che Berlusconi non possa muoversi contro l’Europa, di cui costituisce attraverso il Ppe uno dei principali canali verso l’Italia. Nel suo mirino ci sarebbe Conte, da ridimensionare giocando di sponda con il Pd, che mostra un’insofferenza crescente verso Palazzo Chigi. Un gioco di sponda di cui Renzi potrebbe essere il tessitore occulto.
Sarebbe quindi un’illusione ottica la convergenza con Salvini e Meloni sul no alla riforma del Mes il 9 dicembre. Provocare l’incidente parlamentare sarebbe l’occasione per costringere Conte a quel rimpasto che continua a rifiutare come la peste, temendo di finire a sua volta rimpastato. Un rimpasto che sarebbe il vero obiettivo di Zingaretti e dei suoi.
Un rimpasto, o un Conte 3, con il premier e i grillini fortemente ridimensionati, i democratici tornati centrali e una sorta di maggioranza “Ursula” (Pd, Italia Viva e Forza Italia, con la parte morbida dei 5 Stelle, capitanata da Di Maio), pronta a gestire in chiave europeista la ricca fase del Recovery Fund senza sottostare alle bizze e ai veti che stanno imponendo al governo i grillini con la la paralisi in cui si sono arenati.
Questo disegno, che restituirebbe nuova centralità a Berlusconi, si scontra con le perplessità fatte trapelare in settimana dal Quirinale, secondo cui sarebbe difficile per Mattarella avallare una terza maggioranza differente dalle precedenti nella stessa legislatura. La minaccia delle urne che il Colle ha fatto balenare è sembrato in realtà un modo di premere sui grillini più recalcitranti con l’efficace arma del “tutti a casa”. Ma il Capo dello Stato è troppo accorto per non riconoscere che non si può sciogliere anticipatamente un parlamento in grado di esprimere una nuova maggioranza.
Certo, l’operazione per andare in porto ha bisogno di idee chiare da parte dei protagonisti e di tempi rapidi. Tentennare potrebbe davvero costringere Mattarella a sciogliere le Camere. In ogni caso, il 9 dicembre sarà uno spartiacque, proprio come il 10 dicembre di dieci anni fa.